Che l’Afghanistan non
sia un Paese a democrazia crescente è risaputo, solo la narrativa geopolitica
dettata dalla Casa Bianca vuol farlo credere. Tranne poi oscillare attorno alla
propria presenza armata sul territorio con un numero variabile di militari:
ultimamente generali e Trump pensano di rispedirne in servizio effettivo
quattromila. Così negli ultimi quindi mesi una parte della popolazione afghana,
stanca di guerra interna e importata dalle missioni internazionali, aveva
iniziato a protestare ricevendo in cambio le esplosioni mortali firmate Stato
Islamico. Bombe rivolte anche contro i simboli dell’amministrazione Ghani, ma
in varie occasioni lanciate sulle manifestazioni della comunità hazara,
giudicata empia dai miliziani neri per il suo credo sciita. Di fatto
l’obiettivo destabilizzante dell’Isis è, come altrove, quello di ingigantire le
paure della gente inducendo sottomissione, e lanciare un messaggio anche ai
talebani ‘ortodossi’ contattati dal presidente afghano per possibili accordi di
cosiddetta pacificazione. Come ambasciatore per questo piano è stato cooptato
il noto signore della guerra Gulbuddin Hekmatyar che è potuto rientrare nella
capitale da cui mancava da molti anni. I suoi fan l’hanno accolto con tutti gli
onori, ma per migliaia di famiglie Hekmatyar è il macellaio di Kabul, il
fondamentalista che combattendo contro suoi simili (Massoud, Rabbani, Dostum)
ha contribuito a seminare lutti fra la popolazione nel quadriennio di guerra
civile di metà Novanta. Già difeso dal presidente Karzai, che ha impedito
qualsiasi rivisitazione legale dei massacri antecedenti all’invasione
statunitense del 2001, questo criminale è stato richiamato dall’attuale leader
Ghani in appoggio al suo progetto di dialogo coi talebani che controllano molte
delle 34 province.
Il desiderio
presidenziale non prende corpo per via della spaccatura presente fra i
turbanti, di cui una minoranza si rapporta al Daesh. I restanti capi talib
vorrebbero trattare da posizioni di maggior forza, conquistata sul campo con le
continue incursioni che rendono insicuro ogni angolo del Paese. Contro simili
intrighi nei mesi scorsi s’è sollevato un pezzo di società civile che ha dato
vita a manifestazioni definite “Rivolta per cambiare” e “Movimento illuminato”.
Proteste spesso organizzate fra gruppi etnici, tajiko il primo, hazara il
secondo, due minoranze che si considerano storicamente discriminate dai pashtun.
La contestazione hazara era mossa da motivi economici, perché l’area di Bamyan
(abitata da una parte della comunità) risultava tagliata fuori dal progetto
Tutap (acronimo di Turkmenistan-Uzbekistan-Tajikistan-Afghanistan-Pakistan, le nazioni
dove passerà una nuova linea elettrica). Le alte sfere di Kabul, rapportandosi
a questo business internazionale finanziato dall’Asian Development Bank, hanno optato per un
passaggio della linea da nord attraverso il passo di Salang, da lì le proteste.
Ma questo risveglio con cortei e sit-in, per i motivi più vari, comprese le
contestazioni dell’accoglienza governativa a Hekmatyar, ora rischiano una
reprimenda statale. E’ infatti in corso scrittura e riscrittura di un disegno
di legge che ha l’unico scopo d’impedire manifestazioni di dissenso. Le misure
vengono abilmente mascherate con l’intento di difendere da possibili attacchi
terroristici chi partecipa ai sit-in; in realtà cerca di bloccare con divieti e
iper responsabilizzazioni l’organizzazione degli stessi.
Un articolo del progetto
di legge esautora la polizia dai compiti di verifica e di controllo che
ricadono tutti su chi promuove il raduno, e in caso di disordini, violenze o
peggio dovrà risponderne penalmente. S’impedisce ai minori di partecipare alle proteste,
come pure agli stranieri e a personaggi noti, s’interdicono luoghi pubblici
adiacenti a zone commerciali, sanitarie, d’istruzione oltre che agli edifici di
rappresentanza amministrativa e governativa. Per timore di attentati i luoghi
concessi potranno situarsi nella periferia estrema delle città o in aperta
campagna. Oltre all’isolamento visivo delle manifestazioni dai centri abitati,
il governo cerca di rendere difficoltoso ai potenziali partecipanti il
raggiungimento dei luoghi d’incontro e se questa dissuasione non dovesse
bastare li intimorisce con le conseguenze legali. Perché dall’entrata in vigore
della legge si potrà protestare solo se si propongono alternative. Chi non le
ha, non avrà diritto di azione e parola. E qualora ne avesse certe richieste
potranno venire considerate “irrazionali”, come sostiene un gruppo di senatori
vicini all’attuale Esecutivo. Con simili restrizioni, che s’aggiungono alle
tante già esistenti cui si può sempre applicare “il divieto dei divieti”
giustificato dallo stato d’emergenza, gruppi particolari etnici o religiosi (ad
esempio i Sikhs afghani) non potranno più chiedere protezione a difesa del
diritto di fede. Per offrire legalità alla stretta repressiva contro ogni
libero pensiero e dissenso, l’ennesimo governo fantoccio di Kabul chiede di
presentare un “permesso di protesta” - lo definiscono così - che sarà soggetto
all’insindacabile valutazione di un organismo preposto (finora si poteva
manifestare annunciando luogo e giorno del raduno). Ghani cerca di salvarsi il
cammino politico silenziando ogni voce civile e patteggiando coi taliban. Ma quest’agognato
accordo non gli garantisce un futuro.