Il referendum turco, che domenica 16 deciderà se
approvare la riforma costituzionale varata dal parlamento, ha un’onda lunga che
s’agita sin da gennaio. I deputati del Meclis votavano i diciotto emendamenti dopo
essersi scazzottati e gli attivisti del sì e del no ne hanno, in alcune
circostanze, emulato le gesta. Il presidente in carica Erdoğan, che da questa mutazione
genetica della Carta riceve poteri pressoché assoluti (abolita la figura del
premier, introdotti decreti presidenziali al posto di leggi parlamentari e misure
d’emergenza per ragioni di sicurezza, possibilità di controllo sul massimo
organo giudiziario grazie a nomine dirette), aveva inizialmente tenuto un basso
profilo. Evitava di spargere sale sulle ferite dell’ulteriore spaccatura in
atto nel Paese per non collezionare l’ennesima accusa di polarizzazione. Nelle
scorse settimane l’indole l’ha tradito. Dopo i dinieghi incassati dai ministri
turchi a tenere comizi ai connazionali emigrati in Germania e Olanda, lui non
s’è trattenuto. Ha accusato i governi di quei Paesi, membri della non amata
Unione Europea, di conservare germi di nazismo. Così le polemiche sono
rimbalzate sulla vetrina internazionale, prima di tornare in casa dove vengono
rinfocolate da nuovi casi. I pochi media rimasti fuori dal controllo del
governo, notano come Bahçeli, l’alleato tattico grazie ai cui voti la riforma è
passata, sia impegnato ad allontanare da sé responsabilità in caso d’insuccesso.
Non è un segreto che il leader nazionalista, che pur controlla parecchi
onorevoli disponibili ad appoggiare la svolta presidenzialista (si vocifera in
cambio di favori), sia parecchio contestato dalla base.
I kemalisti del Mhp sono divisi e una parte del
partito sostiene il fronte del no. Perciò il vecchio lupo grigio cerca alibi e
capri espiatori in caso di sconfitta referendaria, sa che l’ira del presidente
sarebbe immensa e la vendetta dell’attivismo dell’Akp, metterebbe da parte ogni
vicinanza dell’ultim’ora, rinfocolando gli antichi odi fra kemalisti duri e
puri e islamisti altrettanto pugnaci. Così Bahçeli, fra un passo in un’intervista
e un’insinuazione profferita a mezza bocca, parla di Gül e Davutoğlu. L’ex
leader, premier e presidente ha lasciato cadere l’invito rivoltogli da un noto
parlamentare dell’Akp a partecipare a comizi per il sì. In tal modo ha
rinfocolato le voci che lo vogliono accanto a chi respinge apertamente il
cambio di rotta costituzionale. I think tank più vicini al presidente fanno
girare due parole, che si trascinano dietro concetti e insinuazioni poco
lusinghieri: tradimento e inconsapevole. Nelle diatribe dell’islam politico
turco - Gül e l’ex professore-ministro rappresentano un passato recentissimo
del progetto che li vedeva uniti a Erdoğan e Gülen - il fatto che i due
statisti neghino il consenso al referendum li marchia come traditori. Magari
inconsapevoli (avranno smarrito il senno?) ma espressamente traditori. Per il
clima di resa dei conti nella famiglia islamista, in atto dalla scorsa estate
con la caccia ai fethullaçi, non è un
bell’andare. Sino a qualche settimana fa le proiezioni del sì erano confortanti
e s’attestavano attorno al 55%, ultimamente s’è insinuato il dubbio. Le sue
aree forti sono nel centro anatolico, lo stesso che aveva approvato anche i
referendum votati sotto le giunte militari negli anni Sessanta e Ottanta.
Roccaforte del no, la provincia di Istanbul e
l’area costiera mediterranea centroccidentale. Poi c’è l’incognita del sud-est.
Gli ultimi rumors danno il voto contrario in ripresa, tantoché si sono
verificati episodi contestati davanti alla magistratura: casi in cui fedeli
islamici, fedelissimi al presidente, che si sono disposti sul pavimento d’una
moschea a formare un acronimo d’appoggio al sì. Molti dissensi sono sorti
attorno a un uso spregiudicato di mezzi e fondi governativi per sostenere quella
campagna. Il Chp ha denunciato una pervicace ostruzione alla sua propaganda per
bocciare i referendum, mentre l’emittente TNT s’è rifiutata di
mostrare il logo dello schieramento del no perché riproduce una stella che
‘imita’ la bandiera turca. Cosa giudicata irregolare. Per parare i colpi dallo
staff presidenziale è ripartita una marcatura stretta anche verso i kurdi e la
recente proposta del leader kurdo-iracheno Barzani su un altro genere di referendum: per
l’indipendenza dell’etnìa in Iraq, che potrebbe avere ripercussioni anche oltre
il confine turco, è passata quasi inosservata con una reazione mite della leadership
di Ankara. Più d’un osservatore pensa si tratti d’una tattica per la ricerca
del sì anche nell’area del sud-est. Stoppata, però, dal co-presidente
prigioniero, il leader dell’Hhp Demirtaş, tuttora in galera nella provincia di
Edirne. In un messaggio portato all’esterno ha scritto: “Andate alle urne e votate no, senza
distinguere se si è kurdi, turchi, aleviti, sunniti o di qualsiasi sigla di
partito. Il coraggio è contagioso, sicuramente il bene vincerà”.
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