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mercoledì 5 aprile 2017

Siria, la più atroce delle atrocità

Incolore e inodore, il sarin è un gas subdolo e vile come chi lo usa. Colpisce il sistema nervoso d’ogni organismo vivente. Blocca il respiro, contrae le pupille, produce spasmi convulsori, quindi la perdita di qualsiasi controllo: coordinazione e saliva, urine, feci. Fu creato, guarda un po’, dai nazisti, usato da chi quei metodi ripercorre, nonostante ideali e fedi, da Saddam Houssein nel 1988 sui kurdi, agli attentatori della setta Aum Shinrikyo a Tokyo nel 1995. Quindi in Siria nel 2013 nei raid su Goutha, periferia di Damasco. Di fronte a questo strazio, 1400 vittime, la comunità mondiale ebbe un sussulto, minacciò Asad e questi, che respingeva ogni addebito, accettò che tecnici internazionali ispezionassero gli arsenali chimici (che esistevano), sequestrassero le armi proibite, le smaltissero altrove. Non tutto è stato sequestrato e inibito, all’esercito di regime, ai jihadisti, ai molteplici alleati dei due e più fronti, visto ciò che accade a Idlib e che può riaccadere. Perché lì la guerra per il potere e il dominio, è da tempo diventata solo guerra per lo sterminio. Chi da anni ne piange i lutti, punta il dito e ci accusa: “Ve ne accorgete solo nelle occasioni strazianti in cui ci sono morti per uso di armi chimiche?” afferma in una breve intervista al Corsera lo scrittore siriano Muhammad Dibo. E aggiunge il suo punto di vista, che è quello d’un oppositore al regime che dopo la galera e la degenerazione della guerra civile è riparato a Berlino. “Asad ha continuato a uccidere senza fermarsi un solo giorno per sei anni. Le morti per i gas sono più gravi di quelle avvenute in carcere o con altri metodi?
Siamo di fronte a un mondo sordo che sembra dire ad Asad: uccidi ma non con le armi chimiche! Fallo coi carri armati, i bombardamenti aerei, non con le armi chimiche”. Dibo non è il solo scrittore che merita su atrocità e ferite, un altro siriano aveva nel 2006 realizzato un romanzo che è sembrato un tragico annuncio della catastrofe nazionale: è Khaled Khalifa con L’elogio all’odio. Conoscitore dei propri connazionali, delle tensioni fra confessioni e ideologie che hanno preso il posto della convivenza quando son diventate partiti e clan, Khalifa, nato vicino ad Aleppo, più che prevedere, narrava. E il suo crudo romanzo rievoca altre tensioni, dove il gruppo di potere degli Asad, allora diretto da Hafez, reprime ferocemente i tentativi d’insurrezione, che videro anche un attentato nei suoi confronti, fallito. Era il 1980. Quella storia evidenzia i  legami che ovviamente ricorrono in un Paese dove etnie e religioni hanno radici millenarie. Alcuni personaggi dell’opposizione al regime vivono contraddizioni, accade che una ribelle possa unirsi sentimentalmente a un ufficiale del partito Baath; nello spaccato sociale e umano convivono amore e carica di reciproco odio. Oggi in parecchi riflettiamo su due condizioni. Sul cinismo di ritorno che ammanta le nostre vite, quelle impotenti di cittadini comuni che constatano di non poter far nulla se non gridare una frustrante indignazione per la morte, i gas, le stragi, magari contestati dai teorici degli schieramenti ideologici pro e contro a prescindere. E sul cinismo doc dei grandi e piccoli professionisti della geopolitica, che potrebbero fermare i massacri ma decidono in base opportunità e convenienze.

Tutti quelli che hanno permesso al jihadismo di combattere la propria guerra selvaggia e coloro che consentono ad Asad di considerarsi tuttora presidente della Siria, anche se il Paese è imploso e il popolo muore o fugge via. Tutto è bloccato da sei anni, mentre il sangue scorre. Sembra ci sia un’assuefazione fuori e dentro quel territorio. Raccontando la sua Siria Khalifa parla di morte come un fatto quotidiano (“A Maryam non piacevano per niente quelle farfalle infilzate sulle tavolette di legno. Le loro ali stese con rassegnazione facevano pensare alla morte, che era diventata un fatto normale..”); di una normalità del male (“pensai ai torturatori, di cui si sentivano le risate volgari mentre tornavano a casa di sera, portando verdure e pane ai loro figli come fossero gente normale; pensai agli ammazzati di entrambe le parti, morti per dar vita a un ideale”). Di errori e ripensamenti sugli orrori (“…aveva ammesso gli errori dell’organizzazione (islamista, ndr), ma allo stesso tempo aveva accusato il regime e il generale degli Squadroni della morte, a cui aveva dato del fascista e del criminale di guerra, di essere i responsabili della morte di migliaia di siriani”); di una divisione scavata e resa profonda dal conflitto (“L’odio era la nostra arma più potente“…lo feci per instillargli il veleno del mio odio. Strinsi la mano al mio nemico guardandolo negli occhi, ma sapevo che era già un uomo morto”). E’ un quadro cupo, apparentemente senza vie d’uscita. Come l’attuale realtà dove tutti gli attori interni ed esterni dovrebbero tornare sui propri passi accettare censure, praticare ritiri, restituire sogni a quei bambini cui rubano la vita. Ma non lo fanno.

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