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martedì 3 maggio 2016

Taliban, aria di primavera

Come ogni primavera i Talib afghani rinnovano l’offensiva interna. Stavolta l’hanno anticipata alle prime settimane d’aprile, chiamandola ‘operazione Omari’ in onore del leader del movimento (mullah Omar) di cui nei mesi scorsi è stata annunciata definitivamente la scomparsa. In realtà le loro offensive non si sono mai fermate, in autunno c’è stato l’assedio di Kunduz, in inverno continui attentati nella stessa capitale. E’ una strategia che mira a tenere sotto pressione l’esercito locale, mostrandone l’inefficienza senza il supporto statunitense e diffonde un chiaro messaggio alla popolazione: il vero controllo del territorio lo stabiliscono le nostre milizie. Le rinnovate offensive primaverili hanno colpito contemporaneamente parecchi distretti che circondano Kabul da est (Laghman, Nangahrhar, Kunar) e a nord (Parwan), quelli meridionali (Helmad, Kandahar) e settentrionali (Sar-e Pol, Faryab, Badghis). Azioni capaci di evidenziare organizzazione, audacia, coordinamento che impongono al presidente in carica una subalterna rincorsa, la stessa che balbetta da due anni. La campagna ribadisce il rifiuto a sedersi al tavolo delle trattative con Ghani, Sharif e gli emissari di Obama e Xi Jimping, e lancia un ottimismo smisurato di vittoria, mai apparso così evidente neppure durante l’enorme offensiva del 2009-2010 che mise in gravissima difficolta un esercito d’occupazione salito a 100.000 unità. I talebani promettono a tutti gli abitanti delle aree interessate una salvaguardia nei confronti di milizie Isis e dei mujahhedin che potrebbero intervenire in quei territori.
Puntano a porsi come unica alternativa armata all’esercito afghano e alle restanti truppe occupanti della Nato. Nelle operazioni degli anni passati i turbanti miravano ad avvicinare alla propria causa i soldati locali, entrando in contatto con loro tramite intermediari che li avvicinavano all’esterno delle caserme oppure coinvolgendone i familiari. Stesse tattiche sono utilizzate per i prigionieri catturati durante in battaglia, sebbene gran parte dei raid si dipanano secondo il consolidato meccanismo della sorpresa e della successiva fuga, evitando di fare ostaggi. Comunque chi è catturato, se titubante a unirsi a loro viene rilasciato sotto la solenne promessa di non tornare a vestire la divisa, seguita dalla minaccia che se dovesse accadere su di lui e sui parenti cadranno sanguinose vendette. Recenti studi di alcuni analisti attorno ai piani talebani notano come nell’odierna propaganda ci sia una generalizzazione degli obiettivi da colpire. Gli annunci d’un anno fa indicavano come obiettivi le truppe presenti nelle basi e in pattugliamento, i contractors, gli agenti dell’Intelligence, finanche i diplomatici, oltre a eventuali ministri. Stavolta si prospettano attacchi ad ampio raggio un po’ in tutto il Paese, rivolti ai punti forti del nemico (le basi aeree attaccabili anche usando kamikaze), mentre per gli omicidi mirati si guarda ai comandanti dei centri urbani. Negli eventuali scontri aperti bisogna evitare di colpire i civili, per distinguersi da quei “danni collaterali” provocati da caccia e droni statunitensi che fanno salire l’odio della popolazione. I dati forniti dall’Unama per il 2015 assegna ai talebani la percentuale maggiore di vittime civili (62%). L’agenzia Onu si può pure annoverare come struttura avversa, ma la ricaduta negativa a proprio danno resta e sembra che i turbanti comincino a tenere in considerazione la propria immagine più degli americani.
Perciò, secondo i ricercatori afghani, il programma d’attacco della stagione si mantiene volutamente generico così da aggirare l’accusa di mancata protezione di quelle figure che diversi proclami talib sostengono di difendere: giornalisti, operatori umanitari, funzionari governativi e giudici, incredibilmente considerati lavoratori. Un altro messaggio è lanciato ai signori della guerra che coi propri mujahhedin controllano varie province, in quei luoghi i talebani presumono che la gente possa poter vivere un’esistenza di normalità e sicurezza. Per attuare questo assegnano a sé una supervisorvisone del comportamento di quei comandanti. Lo stratagemma consiste nel controllare - previo accordo coi mujahhedin che hanno la giurisdizione dell’area dove “regna” il locale signore della guerra o un suo sottoposto - certe vie di comunicazione e di passaggio obbligato, impedendo alle truppe dell’ANF di transitare e raggiungere le basi militari, rendendo vano qualsiasi controllo del territorio. Le notizie che negli ultimi mesi danno gruppi di talebani sparsi a macchia di leopardo ormai su 27 delle 34 province sottolineano una situazione totalmente invertita: l’esercito governativo è arroccato in zone circoscritte e sempre più ridotte, mentre una gran parte del Paese è oggetto di scorribande oppure di presenza stabile talebana. Il panorama è talmente sotto il loro controllo che voci insistenti riferiscono della presenza del mullah Mansour sul suolo afghano, così da aumentare l’ottimismo e porsi in ulteriore posizione di spinta verso un rovesciamento di quel che anch’essi definiscono un governo fantoccio.

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