Come ogni primavera i Talib
afghani rinnovano l’offensiva interna. Stavolta l’hanno anticipata alle prime
settimane d’aprile, chiamandola ‘operazione Omari’ in onore del leader del
movimento (mullah Omar) di cui nei mesi scorsi è stata annunciata
definitivamente la scomparsa. In realtà le loro offensive non si sono mai
fermate, in autunno c’è stato l’assedio di Kunduz, in inverno continui attentati
nella stessa capitale. E’ una strategia che mira a tenere sotto pressione
l’esercito locale, mostrandone l’inefficienza senza il supporto statunitense e
diffonde un chiaro messaggio alla popolazione: il vero controllo del territorio
lo stabiliscono le nostre milizie. Le rinnovate offensive primaverili hanno colpito
contemporaneamente parecchi distretti che circondano Kabul da est (Laghman,
Nangahrhar, Kunar) e a nord (Parwan), quelli meridionali (Helmad, Kandahar) e
settentrionali (Sar-e Pol, Faryab, Badghis). Azioni capaci di evidenziare
organizzazione, audacia, coordinamento che impongono al presidente in carica
una subalterna rincorsa, la stessa che balbetta da due anni. La campagna ribadisce
il rifiuto a sedersi al tavolo delle trattative con Ghani, Sharif e gli
emissari di Obama e Xi Jimping, e lancia un ottimismo smisurato di vittoria,
mai apparso così evidente neppure durante l’enorme offensiva del 2009-2010 che
mise in gravissima difficolta un esercito d’occupazione salito a 100.000 unità.
I talebani promettono a tutti gli abitanti delle aree interessate una
salvaguardia nei confronti di milizie Isis e dei mujahhedin che potrebbero
intervenire in quei territori.
Puntano a porsi come
unica alternativa armata all’esercito afghano e alle restanti truppe occupanti
della Nato. Nelle operazioni degli anni passati i turbanti miravano ad
avvicinare alla propria causa i soldati locali, entrando in contatto con loro tramite
intermediari che li avvicinavano all’esterno delle caserme oppure coinvolgendone
i familiari. Stesse tattiche sono utilizzate per i prigionieri catturati
durante in battaglia, sebbene gran parte dei raid si dipanano secondo il
consolidato meccanismo della sorpresa e della successiva fuga, evitando di fare
ostaggi. Comunque chi è catturato, se titubante a unirsi a loro viene rilasciato
sotto la solenne promessa di non tornare a vestire la divisa, seguita dalla
minaccia che se dovesse accadere su di lui e sui parenti cadranno sanguinose
vendette. Recenti studi di alcuni analisti attorno ai piani talebani notano come
nell’odierna propaganda ci sia una generalizzazione degli obiettivi da colpire.
Gli annunci d’un anno fa indicavano come obiettivi le truppe presenti nelle
basi e in pattugliamento, i contractors, gli agenti dell’Intelligence, finanche
i diplomatici, oltre a eventuali ministri. Stavolta si prospettano attacchi ad
ampio raggio un po’ in tutto il Paese, rivolti ai punti forti del nemico (le
basi aeree attaccabili anche usando kamikaze), mentre per gli omicidi mirati si
guarda ai comandanti dei centri urbani. Negli eventuali scontri aperti bisogna
evitare di colpire i civili, per distinguersi da quei “danni collaterali”
provocati da caccia e droni statunitensi che fanno salire l’odio della
popolazione. I dati forniti dall’Unama per il 2015 assegna ai talebani la
percentuale maggiore di vittime civili (62%). L’agenzia Onu si può pure
annoverare come struttura avversa, ma la ricaduta negativa a proprio danno
resta e sembra che i turbanti comincino a tenere in considerazione la propria
immagine più degli americani.
Perciò, secondo i
ricercatori afghani, il programma d’attacco della stagione si mantiene
volutamente generico così da aggirare l’accusa di mancata protezione di quelle
figure che diversi proclami talib sostengono di difendere: giornalisti,
operatori umanitari, funzionari governativi e giudici, incredibilmente
considerati lavoratori. Un altro messaggio è lanciato ai signori della guerra
che coi propri mujahhedin controllano varie province, in quei luoghi i talebani
presumono che la gente possa poter vivere un’esistenza di normalità e
sicurezza. Per attuare questo assegnano a sé una supervisorvisone del comportamento
di quei comandanti. Lo stratagemma consiste nel controllare - previo accordo
coi mujahhedin che hanno la giurisdizione dell’area dove “regna” il locale
signore della guerra o un suo sottoposto - certe vie di comunicazione e di passaggio
obbligato, impedendo alle truppe dell’ANF di transitare e raggiungere le basi
militari, rendendo vano qualsiasi controllo del territorio. Le notizie che
negli ultimi mesi danno gruppi di talebani sparsi a macchia di leopardo ormai
su 27 delle 34 province sottolineano una situazione totalmente invertita:
l’esercito governativo è arroccato in zone circoscritte e sempre più ridotte, mentre
una gran parte del Paese è oggetto di scorribande oppure di presenza stabile
talebana. Il panorama è talmente sotto il loro controllo che voci insistenti
riferiscono della presenza del mullah Mansour sul suolo afghano, così da
aumentare l’ottimismo e porsi in ulteriore posizione di spinta verso un
rovesciamento di quel che anch’essi definiscono un governo fantoccio.
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