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mercoledì 11 novembre 2015

Kabul, protesta anti Isis dopo le decapitazioni


La decapitazione di sette hazara, fra cui tre donne e due bambini, da parte di miliziani vicini all’Isis ha scatenato dure proteste nella capitale afghana. Migliaia di persone, prevalentemente dell’etnìa colpita ma non solo (c’erano anche pashtun, urbeki e tajiki) sono scese in strada gridando la loro rabbia contro gli assassini e contro un governo inerme e incapace. Numerosissime le donne. I manifestanti si sono diretti in corteo verso il palazzo presidenziale, dove risiede Ghani, individuato come il responsabile dell’assenza d’un piano di sicurezza rivolto alla popolazione, nonostante tutti i progetti sventolati anche con l’adesione al Bilateral Security Agreement che permette all’esercito statunitense di prolungare la presenza sul suolo afghano. I sette abitanti hazara erano stati presi in ostaggio più di un mese fa da miliziani pro Isis in una località della provincia di Ghazni e trasferiti più a sud in quella di Zabul, confinante col governatorato di Kandahar. Quell’area ha sempre visto una presenza talebana legata al gruppo del mullah Omar, ora la dissidenza interna sposta sempre più elementi sulla sponda dei miliziani favorevoli allo Stato Islamico e alle sue barbarie.

L’orrore della decapitazione è stato narrato da alcuni testimoni che riferivano l’utilizzo di grandi rasoi. Alcuni attivisti di diritti civili locali hanno rilasciato dichiarazioni ad Al Jazeera riferendo di vivere nel terrore. Simili episodi diventano sempre più frequenti e, nonostante l’altissimo numero dei militari presenti, non si vede chi possa porre rimedio e difendere il diritto alla vita dei cittadini. L’unica dichiarazione rilasciata dal capo della polizia di Kabul Abdul Rahimi è stata quella di “tranquillizzare” la popolazione, poiché l’ordine pubblico nella capitale era garantito dai propri agenti che vigilavano affinché dalla protesta non scaturissero tumulti contro le autorità. Sempre nelle interviste raccolte dalla tv qatarina alcuni manifestanti sottolineavano la necessità di protestare contro un governo che chiude gli occhi di fronte alla crescente morte violenta di cittadini nell’intero Paese. Responsabilità dei miliziani neri e dei bombardamenti statunitensi che sostengono di scovarli e combatterli. L’episodio più clamoroso è stato il deliberato attacco all’ospedale di Medici senza Frontiere nella città di Kunduz che aveva seminato morte solo fra ricoverati e personale medico.

L’etnìa hazara, di religione sciita, ha pesantemente pagato un alto tributo di sangue durante la guerra civile scatenata nel Paese dal 1992 al 1996 da vari Signori della guerra, i più potenti erano il tajiko Massud dell’Alleanza del nord e Gulbuddin Hekmatyar del partito fondamentalista Hezbi-e Islami, quest’ultimo tuttora presente sulla scena politica. Con la fortissima instabilità sul versante della sicurezza e i terremoti presenti all’interno della variegata famiglia dei turbanti, gli hazara tornano a essere il bersaglio di quel sunnismo che cerca di rilanciare conflitti religiosi contro presunti tafkir. Fra i profughi che in questi mesi hanno affrontato tragiche fughe ed esodi attraverso l’Iran, la Turchia e le isole del Dodecaneso ci sono appunto giovani hazara aiutati dalle famiglie in questi viaggi della speranza. Un numero che è cresciuto e continua a restare elevato anche in nell’attuale fase in cui le poche miglia di mare dalle coste turche alle isole di Lesbo, Samos, Kos spesso nascondono insidie e producono naufragi. L’ultimo è di queste ore con ulteriori vittime: quattordici. La metà erano bambini.




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