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lunedì 4 maggio 2015

L’Egitto del non voto

C’è un pezzo di politica egiziana, quella non finita nelle prigioni ordinarie e degli scomparsi, che inizia a interrogarsi su quale quotidianità si prospetti al proprio Paese. Lo fa con circa due anni di ritardo dal golpe bianco dell’esercito, prendendo spunto dalla propria condizione di mancato parlamentare. Mancato perché quell’Istituzione stenta a ricomparire nelle dinamiche politiche interne, definibili in vari modi tranne che democratiche. Per chi non ricordasse: il Parlamento del Cairo venne sciolto a fine giugno del 2012, subito dopo l’elezione a presidente dell’islamista Mursi. Ma non fu lui o il suo partito a cancellare l’Assemblea del Popolo, bensì l’ancora attivo Consiglio Supremo delle Forze Armate che continuava a essere il convitato di pietra della scena politica interna. Con quel taglio si voleva impedire al governo della Fratellanza Musulmana, che aveva fatto il pieno di consensi alle consultazioni del 2011-2012, di trovare nell’organo rappresentativo del Paese un sostegno alla propria azione politica. Dopo la legittimazione elettorale dell’anno scorso Al-Sisi aveva promesso di giungere nei mesi successivi alla scadenza consultiva per riformare il Parlamento. Ma anche le programmate scadenze del marzo scorso e del presente mese di maggio sono venute meno.

Nel commentare la cancellazione il generale-presidente afferma che la consultazione eventualmente avverrà dopo il mese santo del Ramadan, che si concluderà a metà luglio. Il periodo rilanciato è ottobre, seppure a crederci sono rimasti in pochi. I due motivi di rinvio sono finora stati: la sicurezza interna mesa in pericolo dalla sequela di attentati e l’ulteriore ritocco alle percentuali di rappresentanza, la cui ultima versione sfornata dalla preposta Commissione di studio prevede: 596 deputati,  448 eletti come indipendenti (seppure appoggiati direttamente o meno a liste di partito), 120 espressione di partiti e 28 nominati dal Capo di Stato. Anche analisti rimasti per mesi silenziosi o in surplace di fronte alla linea repressiva incarnata da Sisi e colleghi militari, cominciano a dubitare sulle intenzioni realmente democratiche del presidente. Temono che l’emergenza sicurezza diventi l’alibi per tenere congelata la scena. Anche la sequela d’incidenti e catastrofi interne ricordano una tattica in voga ai tempi di Mubarak. Ultimamente sono stati colpiti tralicci elettrici nel governatorato di Beheira, quindi un episodio simile s’è ripetuto a piloni del Cairo Media Center. E ancora: milioni di danni per un deragliamento della metropolitana della capitale e il crollo di un ponte a Mansoura, nel Delta del Nilo. Fino all’affondamento d’un carico di 500 tonnellate di fosfato nel grande fiume presso la città di Qena.


Casualità, sfortuna, negligenze nei controlli e nell’organizzazione del lavoro? Può darsi, ma in molti rammentano come questo genere di “emergenze” create ad arte, consentivano a presidenti autocrati alla Mubarak, e predecessori, a concentrare l’attenzione sulle stesse, evitando differenti impegni. Un modo di governare, dunque, tenendo la popolazione con l’acqua alla gola e nell’incertezza del presente. Così la questione dei diritti umani violati, sollevati non solo da Amnesty International ma nelle ultime settimane anche da commentatori locali, passa in seconda e terza linea, schiacciata da cronache più o meno catastrofiche. Oppure la condizione dei beduini del Sinai, arrestati in massa e in alcune circostanze passati per le armi durante repressioni antiterroristiche, pagano il pegno alla sicurezza nazionale messa in forse dalla presenza jihadista. Ridanno fiato a un malcontento anche quei socialisti che avevano offerto copertura di sinistra alla cosiddetta “rivoluzione della seconda primavera” (del 30 giugno 2013) con cui milioni di cittadini manifestarono contro Mursi, chiedendone la rimozione. Invece i nasseriani sono sempre al fianco dell’uomo forte, che “ha fatto un brillante lavoro, migliorando le relazioni con gli Usa, difendendo la nazione dal terrorismo e puntando allo sviluppo economico“. Proprio così. Affermazioni da campagna elettorale, che però non c’è.

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