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lunedì 29 dicembre 2014

Missione Isaf, inglorioso addio alle armi

Via dall’Afghanistan, ma non del tutto. Chi torna a casa sono 40.000 militari (32.000 statunitensi) della missione Isaf che conclude il suo  ciclo di tredici anni di “guerra al terrore” dagli esiti disastrosi. Ufficialmente ha lasciato sul terreno 3.500 suoi uomini, ma ci sono anche i cadaveri non conteggiati di contractors impegnati in svariate occasioni soprattutto incursioni, rappresaglie, rapimenti. L’intervento ha seminato morte non solo sull’insorgenza talebana, che in alcune province del sud-est ha aumentato una presenza e un rapporto con le popolazioni locali proprio a seguito dei bombardamenti generalizzati responsabili di migliaia di vittime civili. Quante siano state dal dicembre 2001, data di avvio della “missione di pace” Enduring freedom, non è possibile calcolarlo per la difficoltà oggettiva nel raccogliere dati certi. Ufficialmente le statistiche menzionate dall’United Nations Assistance Mission of Afghanistan parlano di migliaia di morti (5.000 solo nel 2002, i dispacci Nato li definiscono “danni collaterali”) di poco inferiori a quelli provocati dai quattro sanguinosissimi anni (1992-96) di guerra civile interna. Le stragi del disonore, come quella di Shinwar compiuta nel marzo 2007 dalla 120a marines che mitragliava passanti sfogando la propria rabbia per un attentato subìto, si sono ripetute nel tempo.
La missione - che attivisti democratici afghani (Malalai Joya o alcuni membri di Hambastagi Party, da noi intervistati in varie occasioni) denunciano come “odiosa occupazione straniera” - proseguirà con medesimi scopi geostrategici. La presenza, prevalentemente americana, sarà denominata Resolute support e dislocherà ufficialmente 12.500 uomini nelle diverse basi aeree (Kabul, Bagram, Kandahar, Camp Marmal, Herat, Mazar-e-Sharif, Jalalabad, Khost) dove continueranno a partire Falcon e droni per azioni “antiterroristiche”. I militari Nato proseguiranno anche il ruolo di addestratori delle truppe dell’Afghan National Army che ammontano a 350.000 uomini. Soldati finora poco affidabili, infiltratissimi dai guerriglieri talebani capaci di realizzare attentati in caserme blindate della stessa Kabul. Nonostante i pericoli la divisa attira giovani reclute soprattutto per ragioni economiche: guadagnare 400-500 dollari mensili, seppure a rischio della vita, è nell’Afghanistan odierno un’opportunità cui ventenni senza speranze non rinunciano. L’alternativa è far parte delle milizie private dei Warlords, oppure aderire all’insorgenza dei gruppi talebani. Nel primo caso con un salario, nel secondo non sempre. Il panorama che la missione Isaf si lascia alle spalle è quello d’un Paese tutt’altro  che normalizzato.
Non sul fronte della sicurezza, visto che solo negli ultimi dieci mesi ha dovuto contare la perdita di ben 4.600 uomini; attacchi e attentati si susseguono sin nel cuore dell’area proibita della capitale, teoricamente difesa da check point, muraglie, cavalli di frisia, pattugliamenti. Non sul versante economico, perché nell’infinità di miliardi di dollari spesi durante la missione (gli Usa hanno toccato picchi di 30 miliardi di dollari l’anno, l’Italia impegnata dal 2003 ha mantenuto fino a 4.300 militi con fondi che sfioravano il miliardo di euro, per una media annuale di 750 milioni) nulla è stato indirizzato verso una rinascita produttiva (agricola o d’allevamento) e ovviamente niente verso il terziario di servizi, rimasti sempre un sogno. Nessun lavoro legale, solo arte dell’arrangiarsi. La stessa attività estrattiva di minerali ricercatissimi (le famose terre rare) per l’industria dell’hi-tech, che fanno gola a potenze vecchie (Usa e Gran Bretagna) e nuove (Cina) e che i governi “democratici” di Karzai e ora Ghani continuano a concedere a imprese straniere, quasi mai utilizza manodopera locale. Così aiuti esterni, affarismo illecito legato al traffico della droga (nei 13 anni d’occupazione occidentale la produzione afghana d’eroina è schizzata in alto e oggi copre il 95% del mercato mondiale) costituiscono le uniche risorse, il 60% del Pil.
In questi affari hanno mani in pasta quei signori della guerra che come l’uzbeko Dostum è stato condotto alla vicepresidenza della Repubblica. Ovviamente non è il solo, altri compari rientrano negli accordi che vede l’attuale diarchia di Ghani-Abdullah essersi accordata per il rotto della cuffia, dopo un confronto elettorale irrisolto e zeppo di reciproci brogli, e dopo aver distribuito armi ai supporter in una sorta di preparativo di resa dei conti finale. John Kerry ha disinnescato lo scontro con un accordo che potesse continuare a fornire l’alibi di democraticità del sistema istituzionale, una maschera che da oltre un decennio ha condotto in Parlamento e inserito ai vertici dello Stato dei criminali di guerra di lungo corso. Eppure la quadratura del cerchio sembra non funzionare; dopo tre mesi Ghani non è riuscito a stilare una lista di ministri, probabilmente per i veti imposti dalle eminenze grigie che in compagnìa Abdullah si cova in seno. Ora che buona parte delle truppe Nato si ritira un enorme quantità di materiale bellico intrasportabile resterà sul posto. Il programma dei mesi scorsi indicava il rientro di 20.000 container e 24.000 macchine da guerra per una spesa complessiva di 7 miliardi di dollari. Si tratta di materiale bellico imponente e importante che per via aerea da Bagram passerà attraverso la Turchia, giungendo in Germania. E da Kandahar per il Qatar venendo poi caricato su navi Usa presenti in Bahrein. Verso quelle coste salperanno altri cargo dal porto pakistano di Karachi, Armi leggere “made in Usa” incrementeranno, invece, il mercato nero locale, al quale accederanno sicuramente Warlord e turbanti talebani contro ogni piano di sicurezza presente e futuro.

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