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mercoledì 2 ottobre 2013

Siria, pulizia chimica anziché etnica


La caccia alle armi chimiche di Asad (un migliaio di tonnellate di cui un terzo è costituito da gas Sarin, accompagnato dal più potente VX) è iniziata da parte di una task force di venti esperti dell’Organizzazione proibizione armi chimiche che dovrà - dovrebbe - visitare ben 45 siti dove il terribile materiale è conservato. Ben 19 di essi si trovano in zone da mesi infiammate dalla battaglia fra gruppi ribelli ed esercito lealista. Agire in quelle aree è un’operazione che potrebbe rimanere teorica, occorrerebbe attuare tregue locali che sono nient’affatto certe. Anche il modo di eliminare i contenitori coi gas non è scontato, sia l’opzione di caricamento e trasporto all’estero, e ancor più la distruzione “sicura” in loco risultano dispendiose e soprattutto problematiche. Sebbene ufficialmente sia il presidente Asad nell’intervista rilasciata all’italiana RaiNews24, sia il portavoce della Coalizione Nazionale Siriana ascoltato dalla Bbc abbiano garantito di agevolare e proteggere l’azione del gruppo dell’Opac. Ma per quel che si è visto negli ultimi mesi la Csn può parlare solo a nome di alcuni gruppi ribelli, non certo per i miliziani qaedisti che agiscono in maniera totalmente autonoma.
I tecnici, giunti in auto da Beirut perché l’arrivo in aereo sulla pista di Damasco veniva considerato poco sicuro, iniziano un lavoro la cui durata teorica è di un mese, quella pratica resta vaga. La magna politica guarda avanti all’assise di Ginevra due, che dovrebbe tenersi a metà novembre sull’onda della spinta offerta da Russia e Stati Uniti per procedere all’abbandono della minaccia chimica e ad accordi per lo smaltimento di questi arsenali. Se simili passi potranno aiutare anche l’eliminazione delle scorte siriane, la crisi socio-politica del Paese è tutt’altro che superata. Il governo ha evitato, per ora, la soluzione drastica della punizione militare dai cieli ma il domani è sospeso, come le vite di milioni di cittadini. Nel suo lungo discorso davanti a telecamere non amiche Asad è parso reattivo e padrone di molti argomenti. Sicuramente incoraggiato dall’uscita dall’angolo in cui si trovava un mese fa sotto la minaccia dei Tomahawk statunitensi. E rincuorato dall’apertura di Obama verso l’Iran, paese amico e potente alleato. E l’uno-due del presidente statunitense che rinuncia all’azione punitiva e carezza l’omologo ayatollah restituisce ad Asad sicurezza e voglia di spiegarsi.
Con un assolo realistico scopre un Re già nudo, l’Europa priva, e non solo a suo dire, d’un ruolo autonomo (“l’Europa ha adottato la prassi di Bush: emargina gli stati con cui non è d’accordo, parla di emergenza umanitaria ma lancia terribili embarghi contro i popoli”.  Il presidente-dittatore parla del futuro che “necessita indubbiamente di dialogo politico (sic) ma solo dopo aver fermato la violenza, il contrabbando di armi, il terrorismo. Poi serviranno le elezioni per far dire al popolo quel che desidera. Io obbedirò alle decisioni che ogni singolo cittadino manifesterà”. Asad di fronte a un dissenso pacifico sostiene che si farebbe da parte, ciò che non fece quando nel marzo 2011 la piazza iniziò a contestarlo. Ha meditato di fronte al caos nazionale? Forse. I suoi detrattori sostengono che il sistema di potere clanista che lo sostiene, e che egli stesso incentiva, non gli permetterà di abbandonare interessi radicati, anche di carattere economico. Lui parla di difesa della storia nazionale, del crogiuolo di razze e confessioni che c’era prima dell’Islam e dopo l’Islam, della laicità con cui lo Stato garantisce ogni religione e minoranza. Contro l’invasione ideologica jihadista estranea alla tradizione interna e refrattaria a ogni democrazia perché rifiutando il confronto, volta le spalle al prossimo, uguale e diverso da sé. Chissà se, con chi e quando un simile dialogo inizierà davvero.   

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