Non è detto che le elezioni turche si terranno. Dove si voterà nelle dieci province smembrate dal sisma? Sotto le tende che negli attuali giorni di pianto ospitano occhi senza più lacrime, certo. Ma con quale animo? Non è detto che le elezioni si faranno perché il presidente che lancia promesse di alloggi per tutti i sopravvissuti tempo un anno, offre a se stesso una sfida insostenibile, promettendo l’impossibile. Serviranno settimane solo per recuperare cadaveri che possono diventare il doppio degli attuali trentamila corpi maciullati, impossibili da inumare anche nei cimiteri di paesini minuti perché quei luoghi non esistono più. A contare le vittime giungono da fuori e sollevano prefiche in mancanza di parenti. Non è detto che le urne della Turchia riceveranno il consenso o il dissenso a un sistema politico ventennale, eppure in questi momenti di tribolazione e affanno la campagna elettorale è iniziata. Diventa un comizio informale ogni visita delle autorità, dal presidente Erdoğan con consorte pronti a distribuire conforto e carezze ai bambini, ai capi dell’opposizione. Nell’immediato si son visti il repubblicano Kılıçdaroğlu e la leader dell’İyi Parti Meral Akşener portare discorsi di cordoglio a gente stordita dalla tragedia. Nella terra kurda mancano i parlamentari del Partito democratico dei popoli privati non solo e tanto d’una campagna elettorale ufficiale o ufficiosa, ma della facoltà di parola in uno Stato in fuga dalla democrazia. Per loro parlano giornaliste e intellettuali, tutti lontani da casa per ragioni d’incolumità, non quella dai movimenti tellurici, bensì dall’esercizio della libera critica al potere. E’ campagna elettorale anche l’arresto d’imprenditori edili accusati di non aver costruito secondo direttive antisismiche, che peraltro hanno solo cinque anni di vita. L’opposizione sostiene che fossero gli affaristi di regime, tollerati finora dal partito di maggioranza per lo scellerato scambio di favori e tangenti.
Dovrà provarlo una magistratura già ampiamente selezionata, dopo il tentato golpe del 2016, secondo criteri di vicinanza ideologica al Partito della Giustizia e Sviluppo. Ecco, la popolazione turca può iniziare a domandarsi se quello sviluppo posto come una lapide nella sigla del gruppo che guida la nazione sia tale e se lo sia mai stato. Sotto una mezzaluna che ha travalicato il simbolo della bandiera, esaltando l’Islam diventato politico, la nazione è cresciuta. Ma la strada del nuovo Millennio targata Akp ha ripercorso il liberismo economico tracciato un ventennio prima da altri patrioti. Un nome per tutti Turgut Özal, figlio peraltro di un’integrazione con padre turco e mamma kurda. Riforme e interclassismo con punte d’integrazione interetnica, il progetto che l’ha fatto amare nelle città e nelle campagne, un programma che i primi passi del premierato di Erdoğan sembravano ripercorrere. Ma la magìa d’una trasformazione che pure c’è stata, celava debolezze apparse nell’orizzonte finanziario e del Destino. Lo sviluppo non è progresso se a guidarlo è desiderio di accumulo anziché benessere, se gli interessi monetari vincono sull’interesse alla vita. Nell’attuale Turchia l’inflazione mangia i salari, la disoccupazione e i prezzi aumentano, l’economia vacilla come le case della speculazione. E’ su tale panorama di devastazione che la politica gioca le sue carte per il futuro. In un Paese duramente segnato dal lutto e da tanta disillusione i sorrisi che mostrano gli indomiti soccorritori, siano essi della statale Afad o dell’osteggiata Ong Ahbap, sono per Yigit, Aliye, Elbistan e pure per il cagnolino Pamuk strappati alla morte dopo sei giorni dallo squasso della terra. Sono costoro la Turchia viva per la quale vivere e programmare un domani a cui chi vive di politica deve offrire risposte che non siano promesse presto trasformate in menzogne. E siano giustizia vera che in troppi reclamano inascoltati.
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