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martedì 31 gennaio 2023

Il Pakistan del sangue

 


L’ultima strage pakistana a Peshawar, lunedì sera in una moschea dov’erano riuniti per la preghiera almeno 300 poliziotti, può rientrare fra le più sanguinose dell’ultimo decennio. Finora si contano cento bare, ma altri fra i 159 feriti, alcuni in condizioni gravissime, potranno aggiungersi al macabro conteggio. L’attentato è mirato - chi l’ha compiuto voleva eliminare i servitori armati dello Stato - echeggia in maniera meno crudele non meno sanguinosa, l’attacco alla Scuola pubblica militare compiuto nel 2014 sempre a Peshawar. Lì a cadere furono 132 giovani in età scolare che avevano la colpa d’essere figli di uomini in divisa. Le vittime complessive furono 145. Nel rivendicarla i Tehreek-e Taliban (TTP), ricordavano che, nella primavera precedente, gli stessi militari non si erano posti scrupoli nell’assassinare civili e bambini durante l’operazione denominata “colpo acuto e tagliente” (Zarb-e Azb) nel Waziristan settentrionale. L’obiettivo erano i gruppi islamisti dei TTP, Lashkar-e-Jhangvi, Movimento Islamico del Turkestan orientale, Rete di Haqqani. Si contarono tremilacinquecento vittime, un buon numero erano abitanti di villaggi accusati di dare sostegno logistico ai miliziani, a fine missione quasi un milione di persone furono allontanate con la forza dalla provincia. L’attentato di ieri ha distrutto una moschea, l’intento principale era uccidere chi era lì riunito. Uno scopo diverso da un altro agguato esplosivo che nel marzo 2022 aveva insanguinato un’altra moschea presso il Qissa Khwani Bazaar, sempre di Peshwar. I 63 martiri di quelle raffiche di mitra e della successiva esplosione suicida erano sciiti, a reclamarla fu l’Isis-Khorasan, con intenti certamente destabilizzanti interni al proprio fanatismo religioso. Sull’allarme terrorismo hanno puntato il dito il premier e il ministro degli Interni di Islamabad recatisi sul luogo dell’ennesimo strazio.  

 

Shehbaz Sharif ha dichiarato: "Con le loro spregevoli azioni i terroristi vogliono diffondere paura e paranoia tra la gente. Il mio messaggio a tutte le forze politiche è di unità contro gli elementi anti-Pakistan. Possiamo combattere le nostre lotte politiche più tardi". In realtà le due ultime annate politiche hanno visto i partiti che hanno espresso i due governi, la Lega Musulmana-N per l’attuale e Pakistan Tehreek-e Insaf per il precedente, compresi gli alleati, accusarsi e contrastarsi attorno al tema della sicurezza interna. Che ovviamente s’aggiungeva a cogenti e cocenti questioni economiche e sociali, ma che aveva visto aprire un dialogo da parte del primo ministro, poi sfiduciato, Imran Khan, con due componenti fondamentaliste islamiche. Quella del partito del boom elettorale nelle elezioni del 2018, Tehreek-e Labbaik Pakistan, che dal nulla era diventato la quinta formazione del Paese, sospinta dal focoso leader Rizvi sostenitore dell’applicazione della Shari’a su tutto il territorio nazionale. E con gli stessi vertici  bombaroli del TTP. Costoro in cambio d’un cospicuo rilascio di prigionieri (5.000) e la conservazione dell’autonomia delle Aree Tribali, che tutti i gruppi presenti in Parlamento vogliono azzerare, avevano proclamato il cessate il fuoco. Nel mirino, accanto agli attentati stragisti, c’erano ufficiali e soldati dell’esercito. Nei mesi delle trattative gli agguati si sono fermati. Oltre confine i talebani afghani sono entrati a Kabul proclamando l’Emirato, che ha portato in quel territorio miliziani Tehreek sodali del clan Haqqani, insomma la situazione era in divenire. Anche dopo il disarcionamento del fautore dei colloqui Khan, il tavolo coi temibili TTP non s’era chiuso. Vi sedevano emissari dell’attuale governo fino al blocco autunnale d’ogni trattativa che decretava la fine del cessate il fuoco degli islamisti armati. Il rinnovo delle cariche nelle Forze Armate con la scelta di due uomini ‘duri e puri’ (i generali Munir e Mirza) non ha favorito un diverso epilogo. Da quel momento i taliban pakistani hanno nuovamente dichiarato guerra allo Stato. E il terrore è tornato.  


 

lunedì 30 gennaio 2023

L’Iran vulnerabile

 


La guerra non dichiarata né rivendicata, ma periodicamente praticata da Israele ai danni di strutture e uomini della ricerca nucleare e d’impianti di difesa e sicurezza iraniani è l’altra faccia del ballerino accordo sul nucleare che avvicina e allontana da quasi un decennio Teheran ai grandi del mondo, i cosiddetti cinque più uno: Usa, Gran Bretagna, Francia, Russia, Cina e Germania. E’ su questa tecnologia per uso civile che tentennano i dubbiosi e soprattutto un nemico dichiarato della nazione persiana: Israele. Le sue sponde diplomatiche e politiche, attive soprattutto negli States, spingono per far naufragare il piano. Durante la presidenza di Trump, che nel 2018 ritirò l’adesione statunitense, il boicottaggio ha raggiunto l’acme, riproponendo una tensione fra gli schieramenti. In aggiunta il Mossad lavora fuori e dentro i confini iraniani, in più occasioni violati da commando che hanno colpito figure di spicco del programma nucleare (su tutti il fisico Mohsen Fakhrizadeh) e apparati della sicurezza di una vulnerabile Intelligence (Vezarat-e Ettela'at va Amniat-e Keshvar), piegata in taluni attentati anche da commando jihadisti. Nella notte di sabato scorso i missili con cui alcuni droni a breve raggio, dunque avviati all’interno dei confini nazionali, hanno colpito una fabbrica di attrezzatura militare presso Isfahan, riproducono quanto era già accaduto in strutture simili nel febbraio e maggio scorsi, rispettivamente a Kermansheh, verso il confine iracheno, e Parchin, a sud della capitale. Più che i danneggiamenti materiali, volutamente sminuiti dall’agenzia statale Irna, resta l’impatto mediatico che evidenzia i limiti della difesa dei cieli della nazione. Carente riguardo alla tecnologia aerea, ha sviluppato negli anni un’efficienza missilistica e di velivoli privi di pilota i cui prodotti (il recente Shahed 136, usato nella guerra yemenita e dai russi sul fronte ucraino) risultano strategici negli attacchi fino a 2500 km. 

 

Eppure nel dare e avere dei conflitti locali, che i corpi armati degli ayatollah hanno tenuto vivi dal Libano, all’Iraq, alla Siria, l’efficacia di taluni settori paga profondamente dazio alle lacerazioni subìte in casa. S’è anche detto che nemici storici dell’islamismo sciita militante, come i Mujaheddin del Popolo - per tutto un periodo relegati in Iraq, a metà strada fra campi di detenzione e protezione della Cia - siano utilizzati per operazioni di Intelligence. Forse è fantapolitica, poiché di quell’organizzazione, di quella generazione possono attualmente agire, i nipoti, qualora ne siano nati. Certo è che l’opposizione al potere clericale, che ha tracimato in gran parte del Paese, può costituire un terreno di reclutamento anche per potenziali agenti dalle azioni speciali. Ovviamente non un reclutamento di massa. I colpi portati all’immagine del regime da operazioni come quella di sabato, rappresentano il frutto di addestramento d’alto profilo e segretezza. Frutto d’una destabilizzazione cui forse non presterebbe il fianco quell’opposizione ad ayatollah e pasdaran che pure rischia condanne a morte dai duri di Teheran, come il giudice delle impiccagioni Salavati. Ma quel futuro rivolto al passato di grandezza (imperiale, zooroastriano) di cui hanno parlato intervistatori dei ribelli davanti ai fuochi di Tabriz, Urmia, Sanandaj, non dei ragazzi solidali delle piazze occidentali che pur con cognomi persiani l’Iran non l’hanno mai conosciuto, potrà materializzarsi sull’onda d’un nazionalismo etnico con azeri, kurdi, beluci e persiani dissidenti agli attuali gangli del khomeinismo. L’ipotetica spallata ai poteri forti di Teheran non può essere esente da conflitti interni assai aspri, ma quelli rivolti contro la nazione iraniana continuano a puzzare di avversari stranieri, d’imperialismo occidentale, sionista, di complotti vari, con cui devono fare i conti anche i cittadini che non amano né Khamenei né Raisi. 

venerdì 27 gennaio 2023

Palestina, realtà e finzione

 


Commenti su vari quotidiani, da La Repubblica a Il Foglio, sottolineano come l’assalto e sterminio di ieri del commando della Jihad islamica palestinese nel campo profughi di Jenin (dieci vittime), somigli a quanto narrato dall’ultima serie della fiction “Fauda” diffusa sulla rete Netflix. Non lo mettiamo in dubbio. Che la serie aiuti a capire l’atavico conflitto è, invece, una considerazione che non ci sentiamo si sottoscrivere. Le citate spiegazioni ricordano come lo sceneggiato nasce in Israele, ed è dunque di parte, ma indicano un’ampia diffusione e un discreto successo fra spettatori del mondo arabo. La produzione è indubbiamente professionale nella realizzazione, nelle riprese, nella recitazione d’un cast di ottimi attori, come pure nella trama capace di coinvolgere lo spettatore per le vicende personali che contrappongono e intrecciano situazioni di vita. I riferimenti politico-militari presenti, dalla squadra dello Shin Bet dove “lavorava” il borderline Doron, agli amori di Shirin divisa fra appartenenza al suo popolo (palestinese) e infatuazioni per l’invincibile nemico, incarnato dallo stesso Doron, paiono tessute con l’intento di rapire lo spettatore con un plot densissimo, ricco di colpi di scena e quello che gli anglosassoni definiscono turning point, il punto di svolta. Vicino alla realtà c’è sicuramente quel reale che il mondo israeliano ha imparato a conoscere: le debolezze umane e l’opportunismo in cui cadono alcuni personaggi che si vendono al nemico, diventano collaboratori, praticano un amorale doppiogiochismo. Tutti sul fronte palestinese. Che risponde, questo sì, a una tangibilità politica che nei decenni ha visto strutture e figure di primo piano di quel mondo - pensiamo alla cariatidea Autorità Nazionale Palestinese oppure all’ex responsabile di Fatah nella Striscia di Gaza, Mohammed Dalhan, ed egualmente a inamovibili leader come Mesh’al - incarnare corruzione e sete di potere, ben lontane da interessi e volontà popolari. 

 

Il titolo scelto (Fauda) che in arabo sta per ‘caos’ è di per sé emblematico d’una situazione insostenibile che però appare eterna. Come perenne è diventato più che il conflitto israelo-palestinese, la reclusione di quest’ultimo popolo in quella galera a cielo aperto che lo ospita. Lo ospita e non lo fa vivere. Perché su quelle che sono le sue recenti case (magari ricostruite dopo distruzioni punitive di Tsahal) - non quelle rubate, demolite, trasformate già all’epoca della nascita dello Stato di Israele - la comunità palestinese è piegata a sopravvivere sotto minaccia armata dell’esercito di Tel Aviv che protegge insediamenti di coloni, sempre più invasivi, sempre più asfissianti, sempre più violenti. E quando i suoi giovani si armano hanno le ore contate nella Jenin fuori dalla fiction come in quella filmica. Il caos che traspare nello sviluppo della finzione è un’angosciosa realtà che non trova soluzione. Ma se la trama di Fauda scivola, volente o meno,  nella propaganda, la situazione concreta diventata irrisolvibile è frutto della politica di aggressione che Israele ha praticato dalla sua nascita con qualsiasi governo, al di là dell’oltranzismo di Netanyahu e del razzismo di Ben Givr. Ciò che studiosi, peraltro israeliani, come Pappé e Weizman hanno descritto è come la strategia della cancellazione d’indentità e dell’occupazione d’ogni spazio fisico e mentale del nemico palestinese, rappresentano una finalità di annientamento politico, sociale, culturale, umano. Palestinesi come bersagli se reagiscono, non solo coi razzi, anche con le pietre dei ragazzi dell’Intifada e con le parole della giornalista Abu Aklen. Oppure come zombie, da corrompere, comperare, pilotare e comunque soggiogare come racconta l’infinito caos di Fauda.

mercoledì 25 gennaio 2023

India: Gandhi contro Modi, l’alternativa all’intolleranza

 

Corroborati dalla folle idea del marciatore Rahul Gandhi di avvicinare l’India reale lungo tremilacinquecento chilometri percorsi a piedi, impresa diventata un movimento definito 'Bharat Jodo Yatra', il Partito del Congresso (NC) cerca linfa nuova che servirà a costruire la nuova politica indiana. Almeno così sperano i maggiorenti del partito. Un gruppo che deve svecchiarsi, non solo come età, ma per lo stesso passato d‘appartenenza familiare. In questo Rahul non è affatto un modello: è un uomo di mezza età e proviene dal clan che ha orientato, nel bene e nel male, le sorti indiane e del gruppo politico dov’è cresciuto, che era del bisnonno Nerhu, della nonna Indira, del padre Rajiv. Una dinastia. L’India raccontata dai parenti, che in parte si conserva, il cinquantaduenne Rahul ha voluto guardarla negli occhi dallo scorso settembre. Sulle strade polverose di villaggi lontani dai lussi della Delhi del potere; nelle campagne remote dove lavora circa la metà della manodopera d’una nazione proiettata fra le grandi del mondo. Nelle affollatissime bidonville che in ogni metropoli affiancano le luci e l’high-tech, non disponendo di energia elettriche e in molti casi, ancor’oggi, neppure di servizi igienici. L’immersione nel Paese vero dei dolori e degli afrori è l’unico modo per lanciare la rincorsa alle politiche del 2024 nelle quali il Partito del Congresso cerca un riscatto, avendo l’ambizione di poter dominare alcuni dei punti fermi dell’agenda del Bharatiya Janata Party, al governo dal 2014. Quest’agenda prevede un ulteriore lancio economico per far fronte alla sfida globale (nell’anno in corso l’India avrà la presidenza del G20), e in attesa di fronteggiare, almeno nelle intenzioni, Stati Uniti e Cina, punta a essere il polo d’aggregazione delle economie in crescita del Sud del mondo. Il noto boom demografico gioca a suo favore anche in ambito lavorativo: le statistiche indicano in 900 milioni i lavoratori indiani, nella quasi totalità giovani, anglofoni,  digitalizzati. Un esercito potentissimo sul fronte di produzione e servizi, anche altamente tecnologici. La contraddizione vissuta, per l’ambigua condotta del governo Modi incentrato sul fanatismo religioso che polarizza il Paese, è incarnata da un calo d’investimenti esteri, già messi in difficoltà dal duro biennio di pandemia di Covid 19. 

 

Con ciò una gran quantità di forza lavoro competitiva si ritrova, o può ritrovarsi, disoccupata con ricadute sulla stessa economia che subisce stagnazione. Eccolo un terreno di confronto con l’avversario politico, che può risultare fruttifero se si riescono ad avere proposte alternative riguardanti prospettive e aspettative, salari e futuro rispetto ai richiami identitari, peraltro in chiave fondamentalista e razzista, reiterati dagli arancioni del Bjp. Certo i richiami orgogliosi alla fase d’indipendenza nazionale che Nerhu guidò in prima persona risultano scoloriti, non solo le nuove generazioni, ma gli individui di mezza età come Rahul hanno conosciuto solo un’India in crescita, con mille problemi, ma proiettata verso il futuro. I richiami socialisteggianti sono anch’essi tramontati in virtù della crisi internazionale di quest’ideologia, non gli ideali egualitari e paritari che il gruppo dirigente del NC torna a proporre. Il suo nazionalismo incentrato sull’umanità può essere una sollecitazione davanti al nazionalismo per soli hindu proclamato dal partito di maggioranza, secondo una visione esclusivista che non considera cittadini i fedeli di altre religioni (200 milioni di musulmani, 70 milioni di cristiani) e lascia i laici in un limbo nel quale decidere con chi schierarsi, con il bene e la tradizione figli del credo di Sheva oppure  l’intrusione di restanti etnìe. E’ la scorciatoia razzista dell’hindutva, che Modi e sodali hanno abbracciato a piene mani e che sta facendo crescere in ogni Stato federale odio e intolleranza. “Bisogna vivere e lasciar vivere” dicono i programmi del Partito del Congresso, “avvalorare le nostre diversità” per contrastare i princìpi squadristi e fascisti del Rashtriya Swayamsevak Sangh con cui il Bjp sta andando a braccetto. Ne va del futuro della comunità indiana. Nel recente programma del National Congress accanto a questioni strutturali: combattere le mafie degli appalti e commerci, assumere severe posizioni di difesa ambientale, offrire incarichi direttivi alle donne, compaiono anche orientamenti dal sapore visionario: dare spazio a parola, musica, arte per educare la gente a quanto di più profondo e bello l’umanità può inseguire. Rispetto a temi come la citata soluzione dell’occupazione lavorativa per giovani che presentano qualità e titoli, e l’indirizzo da dare all’economia dopo l’incongruente corsa alla privatizzazione voluta da Modi, sembrano questioni vacue. Eppure gli analisti non le sottovalutano. Lo scontro politico prossimo può trovare alternative al conflitto di moschee, chiese e templi hindu.

lunedì 23 gennaio 2023

Egitto, dalla fame di libertà alla fame alimentare

 

Visto che la politica estera, in ogni latitudine, condiziona sempre più i consensi interni anche l’Italietta meloniana si fa grande e potente guardando fuori dai confini. Come faceva otto anni addietro il collega Renzi. Differenziare le condizioni energetiche di dipendenza dal gas russo create dall’alleato berlusconiano che ha svezzato l’attuale premier, rappresenta l’obiettivo primario di Palazzo Chigi, aggiungendo nel dare-avere con gli interlocutori due ulteriori obiettivi: vendere armi e frenare l’immigrazione. La trasferta egiziana del ministro degli Esteri Tajani rientra perfettamente in questo quadro, poiché il regime cairota ha presunzioni securitarie nella ribollente area libica oltre a essere un partner dell’Ente Nazionale Idrocarburi nell’estrazione di metano dal giacimento Zohr. Dall’incontro col presidente Al Sisi il capo della Farnesina riceve sorrisi e accondiscendenza per consolidare gli affari energetico e militare; quanto alle promesse di efficacia nel controllo delle partenze di profughi dalle coste libiche verso i lidi nostrani non solo si può dubitare, ma si potrebbe a breve constatare ben altro. Già in alcune circostanze sui barconi della speranza e della morte hanno viaggiato degli egiziani, come i compagni di sventura disperati e affamati più di loro. Con la soffocante crisi economica e alimentare che attanaglia la popolosa nazione araba queste presenze aumenteranno esponenzialmente. Tajani si fa bello sostenendo di poter concordare una migrazione legale e controllata. Meravigliosa illusione. La fuga da casa che lavoratori egiziani compivano un ventennio addietro finendo nei cantieri delle petromonarchie in espansione, è terminata da tempo. Sostituiti dai pakistani e cingalesi che hanno ingigantito la corsa verso il cielo di Doha, Abu Dhabi e simili. Il ritorno a casa è risultato ancor più duro, per restrizioni lavorative e della stessa libertà. Sono gli stessi abitanti rivoltatisi contro Mubarak a constatare una situazione addirittura peggiore sotto il megalomane Sisi, un criminale d’aspetto bonario che spinge il Paese nel  baratro non solo per fame di libertà, ma per fame alimentare. L’inflazione alle stelle, il valore della sterlina locale che muta di ora in ora, i prezzi in salita da mattina a sera rendono la vita in Egitto un inferno. 

 

Nelle megalopoli come il Cairo ancora di più. Sebbene non si muoia di stenti più per la rete della solidarietà familiare e amicale che per il supporto governativo a prodotti primari calmierati (pane, farina, riso, olio, zucchero), le prospettive risultano nerissime. Sul suo trono Sisi pensa in grande. Continua a far costruire New Cairo, la capitale amministrativa e residenziale, dove collocare istituzioni, apparato e dipendenti garantiti dei ministeri, più manager e affaristi, i colleghi della lobby militare e quelli legata a essi. Mentre milioni di egiziani, tagliati fuori non solo da un benessere fittizio e speculativo, ma da un’esistenza minima basata sull’arte dell’arrangiarsi quotidiano da ambulante, autista abusivo, cambiavalute in nero, tuttofare di città e campagna, rischiano di dover fuggire per sopravvivere. Nonostante i convenevoli e le chiacchiere di Tajani con l’omologo Shoukry, l’Egitto si prepara a essere una nuova terra di migranti della costernazione. Il debito pubblico, incrementato dalla faraoniche opere celebrative del potere militare, e di Sisi sulla sua casta (alla nuova capitale s’unisce il raddoppio del canale di Suez) ha tempi stretti di restituzione. In assenza di liquidità: gli emiri creditori chiederanno appoggi al proprio sogno di supremazia politica regionale (bin Salman) e affaristica (Al Thani, Khalifa bin Zayed), il Fondo Monetario Internazionale avanzerà consensi a proprie condizioni di supremazia mercantile e finanziaria. La vita interna non può che peggiore, anche perché tutti i vizi della lobby militare e della corte dei tycoon servili restano intonsi. Sono costoro a controllare e soffocare qualsiasi alito dell’economia, e nel mondo che cerca guerre anziché pace, anche rendite fittizie come quelle del turismo risultano ampiamente ridimensionate. Ciò che appariva alla rivolta di Tahrir del 2011, è. Con l’aggravio d’una canea repressiva che impedisce non la ribellione, ma la semplice espressione. Secondo lo zelante ministro Tajani questo regime ha fornito “rassicurazioni sulle vicende Regeni e Zaki”. Forse da parlamentare era distratto quando Sisi offriva le medesime “rassicurazioni” ai governi Renzi, Gentiloni, Conte I e II, Draghi. Oppure pensa d’essere diversamente considerato per la sua ineffabile scaltrezza diplomatica. 

sabato 21 gennaio 2023

Turchia elettorale, le mosse del sultano

 


Con l’anticipo tattico d’un mese delle elezioni politiche e presidenziali turche (si voterà il 14 maggio) Recep Tayyip Erdoğan, oltre a proporre una sua terza candidatura al vertice dello Stato e a sperare nell’impedimento per l’avversario più temibile, il repubblicano İmamoğlu, cerca di tarpare le ali agli oppositori con l’ausilio della politica estera e sociale. Le amministrative del 2019 che avevano segnato una critica battuta d’arresto per l’Akp (Partito della Giustizia e Sviluppo) che aveva perso la guida delle maggiori città, avevano anche evidenziato lo scontento popolare per le misure d’accoglienza dei rifugiati siriani.  Nell’amata Istanbul, dove si contano oltre 600.000 profughi, una fetta dell’elettorato islamico aveva punito il grande capo disertando le urne o addirittura votandogli contro. Non accettava la linea con cui il presidente ha fatto della Turchia un grande hub per 3.6 milioni di cittadini siriani. In quei seggi primeggiò proprio İmamoğlu, attuale primo cittadino della metropoli sul Bosforo, incappato all’epoca in una polemica con alcuni funzionari pubblici che è diventata motivo di condanna e interdizione dall’attività politica per due anni e sette mesi (è in corso l’appello). Il partito repubblicano la ritiene pretestuosa, un modo per bloccare il maggior candidato dell’opposizione per la guida della nazione.  L’ennesimo strumento giudiziario, che già ha interdetto alla politica capi di partito, come accadde al co-presidente dell’Hdp (Partito Democratico dei Popoli) Demirtaș, detenuto dal 2016 con la grave accusa di fiancheggiamento del terrorismo. 

 

Ora Erdoğan si fa sotto e rilancia. Parla d’un milione di rimpatri “volontari” di cittadini siriani, “con 540.000 già rientrati nelle aree regionali che abbiamo messo in sicurezza” aveva twittato a fine 2022. Si tratta delle zone di confine dove dall’autunno 2019 è attivo il pattugliamento armato dell’esercito di Ankara. Frutto dell’accordo operativo per la sicurezza nel nord della Siria attuato con Putin e tacitamente con Asad, a tutto svantaggio del territorio e delle genti del Rojava che di fronte all’avanzata dei carri armati turchi si sono ritirate a ridosso della frontiera orientale del Kurdistan propriamente detto. Verso le Unità di protezione popolare (Ypg) alla stigmatizzazione e all’accusa d’essere una costola del Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk), fuorilegge in Turchia e non solo, s’aggiungono sospetti e addebiti di responsabilità sull’attentato che ha insanguinato İstiklal Çaddesi nello scorso novembre. Il richiamo securitario a tutela della popolazione trova consensi diffusi, non solo fra gli elettori dell’Akp, la risistemazione dei siriani oltre i confini meridionali del Paese viene già apprezzata, sono due punti forti del programma elettorale erdoğaniano che deve far fronte alle turbative di un’inflazione al 60%. Inutile dire che i profughi ricollocati non sono certo felici di tornare sotto un regime responsabile, al pari dell’islamismo islamico, del proprio dramma lungo un decennio.  

martedì 17 gennaio 2023

Al Jaber, il futuro dei petrolieri ecologisti

 

Gli chiedono di dimettersi da Ceo dell’Abu Dhabi National Oil Corporation, l’azienda statale degli Emirati Arabi Uniti fondata un cinquantennio fa dall’emiro Zayed bin Sultan, e dodicesima compagnia petrolifera mondiale. Lui il quarantanovenne Sultan Al Jaber, che la guida dal 2016, è diventato il presidente di Cop28, la conferenza sul clima del 2023, programmata a Dubai dal 30 novembre al 12 dicembre. Così per ragioni d’opportunità, per celare minimamente il conflitto d’interessi alcune associazioni come Climate Action, Greenpeace anziché contestare l’investitura invitano il re dei petrolieri a salvare la faccia. Tracy Carty a nome di Greenpeace International ha sollevato lamenti: “La nomina mette a rischio la credibilità degli Emirati Arabi Uniti (ma no, ndr)… La Cop28 deve concludersi con un impegno senza compromessi per una giusta eliminazione di tutti i combustibili fossili. Non c’è posto per l’industria dei combustibili fossili nei negoziati mondiali sul clima”. Belle parole. I fatti hanno detto il contrario nel corso della kermesse chiusasi di recente a Sharm-El Sheik, una passerella delle false promesse da parte delle facce di bronzo della politica economica ed energetica mondiale. Felice è risultato il presidente della Cop27, l’egiziano Shoukry che ha tratto beneficio d’immagine per il suo Paese, accontentando il gran capo Al Sisi. Accanto alla funzione promozionale per la nazione organizzatrice, queste conferenze, che dovrebbero cercare soluzioni concrete all’angoscioso cambiamento climatico in atto nel pianeta, riscontrano la presenza dei lobbisti del petrolio, delle aziende che essi dirigono e rappresentano, degli interessi economici di potentati dell’energia intenti a tessere e disfare la tela della soluzione dei problemi. 

 

Al Jaber è l’esempio lampante cui s’unisce la nuova frontiera dell’ecologismo di ritorno abbracciata dai signori dell’oro nero: le fonti rinnovabili. Così, mentre costoro prospettano future ‘emissioni zero’ di idrocarburi combusti, da spostare comunque sempre più in là nel tempo per continuare l’affarismo petrolifero, partecipano alla spartizione del nuovo terreno energetico investendo su eolico, solare, elettrico. Un esempio, che rientra nel piano della diversificazione economica Vision 2030 dell'inquietante principe bin Salman, viene dalla petromonarchia saudita. Da oltre un quinquennio, con l’allora ministro dell’Energia Khaled al Falih, Riyadh ha avvìato investimenti ecologici rivolti a sole e vento. E nella gestione trovano posto manager come Turki al Shehri, un altro Chef Executive Officer per Engie e precedentemente per Aramco. Aziende ed esperienze petrolifere che dai petrodollari cercano ventodollari e soledollari. Il discorso d’investitura per Cop28 di mister Al Jaber appare integerrimo e umanitario “… Dobbiamo concentrarci sull’azione per il clima rivolta alle esigenze del Sud del mondo, quello più colpito dai cambiamenti climatici. La Cop28 intraprenderà il primo Global Stocktake (GST) dall’Accordo di Parigi. Il GST fornirà le basi per dare slancio a questa e alle future Cop e gli Emirati Arabi Uniti cercheranno un risultato ambizioso in risposta al GST dal processo negoziale. Questo sarà un momento critico per rispondere a ciò che la scienza ci dice che dovrà essere raggiunto: limitare il riscaldamento globale a 1,5° C entro il 2050”. Comunque nel suo intervento non aveva negato: “… che l’azione per il clima oggi sia un’immensa opportunità economica per investire nella crescita sostenibile”. E sulla magìa della “sostenibilità” energetica economisti, finanzieri, imprenditori, comunicatori, leader politici e geopolitici giocano le proprie carte con più opacità che trasparenza. 

 

Poco riferiscono sull’inquinamento dei salvifici pannelli solari e altri strumenti che catturano i raggi solari: rame, piombo, gallio, selenio, indio, cadmio, tellurio e via andare. Se collocati su terreni fertili che, in virtù degli incentivi dei governi proprietari senza scrupoli preferiscono adibire anziché coltivare, la già compromessa terra trova altre sciagure visto che raccoglie le suddette scorie. E taciamo sull’inquinamento paesaggistico… Nei mari soffocati da microplastiche che già devastano la catena alimentare ittica, sono presenti - e sempre più lo saranno - i parchi eolici off-shore, dove svettano pale da 200 metri e più d’altezza. Col logorio le fibre di vetro e le resine epossidiche, derivate dal petrolio, di queste pale semineranno micro-micro plastiche contenenti bisfenolo A, un interferente endocrino pericoloso per la salute soprattutto per la prima infanzia. Tale pericolo in realtà ci accompagna dalla fine degli Sessanta quando questo elemento chimico presente nei recipienti per uso alimentare ha raggiunto diffusioni parossistiche. Un’ultima parola e riflessione: litio, l’essenza dell’hi-tech e della mobilità ecologica attraverso le auto elettriche. Quel che si sa sulla limitata disponibilità del minerale presente solo in alcune aree geografiche; sulla problematicità dell’estrazione per gli imponenti sprechi (1,8 milioni di litri d’acqua per tonnellata di litio) e la conseguente desertificazione del territorio (il cileno Salar di Atacama); sull’impatto ambientale di ritorno con emissioni di anidride carbonica che oscillano dalle cinque alle quindici tonnellate per una di litio raccolta; sulla contraddittorietà del riciclo delle batterie, che costa cinque volte in più dell’estrazione e risulta sconveniente ai produttori, ci offre un orizzonte poco ottimistico e scarsamente ecologico. Eppure l’energia sostenibile vola e le Cop che si susseguono un anno via l’altro come festività da celebrare a ogni costo, propongono presidenti ammaliatori e illusionisti, risolutori non si sa, sicuramente affaristi.

lunedì 16 gennaio 2023

Erdoğan come Salvini: Dio-Patria-Famiglia

 

Venti voti cercano Recep Tayyip Erdoğan, il suo partito e gli alleati nazionalisti per indire un referendum popolare su alcuni emendamenti alla Costituzione. Ma non l’avevano creata a immagine del presidente appena sei anni addietro? Certo, ma non gli basta ancora. Stavolta i ritocchi non riguardano l’apparato istituzionale e securitario, bensì quello dei diritti, fra questi la possibilità per le donne d’indossare il velo in ogni spazio pubblico e privato. Fino a un tratto della presenza al governo dell’Akp, attorno al 2010, vigevano le restrizioni kemaliste sull’interdizione dell’hijab in taluni luoghi e per certi incarichi. Tanto che nel 2013 si era registrata una corposa abolizione di tale divieto. Ora la maggioranza vuole rivedere le ultime limitazioni a quella che un decennio fa era diventata una simbolica questione di appartenenza con cui tante giovani studentesse islamiche erano, ad esempio, coinvolte nella protesta contro il divieto d’indossare il velo nelle aule universitarie. Vinsero quella battaglia. Le leggi laiche subirono trasformazioni. Da alcuni mesi il partito di maggioranza sta proponendo un ulteriore ritocco normativo per appagare in maniera totale il desiderio femminile islamico di apparire velate ovunque,  unendolo ad altre istanze relative al diritto di famiglia. Quest’ultime appaiono tutt’altro che liberali, al contrario se approvate daranno un duro colpo alle esigenze delle famiglie Lgbtq. Infatti si propone di definire famiglia solo l’unione fra un uomo e una donna, come in Italia vogliono la Lega di Salvini e il clero conservatore. Del resto in fatto d’integralismo la globalizzazione dei costumi fondamentalisti avvicina fedi e società spesso in contrapposizione. Nei giorni scorsi l’onnipresente presidente ha criticato due partiti d’opposizione: i repubblicani del Chp e i conservatori del partito İyi per aver rifiutato un incontro coi rappresentanti dell’Akp riguardo alla discussione parlamentare sui suddetti  emendamenti. Una convergenza e un’amplissima maggioranza avrebbero risolto nella sede istituzionale la vicenda. Ma la volata delle elezioni elettoral-presidenziali del prossimo giugno, che di fatto è già partita, fa arroccare ogni gruppo dissidente al governo. E le chiusure sono ermetiche. Col proverbiale misto di foga e paternalismo Erdoğan è intervenuto criticando gli avversari: "Il nostro obiettivo è proteggere la famiglia come istituzione dai crescenti attacchi delle tendenze aberranti da parte delle forze globali e rafforzare i diritti delle donne" ha tuonato. Avrebbe potuto lasciare a colleghi di partito la reprimenda. Però la battaglia consultativa del centenario è una scadenza che gli sta talmente a cuore tanto da non tralasciare alcuna circostanza e nessun tema. Eppure nel blindatissimo Meclis controllato coi 290 onorevoli dello schieramento islamico e i 49+1 deputati del partito dei Lupi grigi di Baçheli suoi alleati, (340 seggi su 600), mancano una ventina di voti per poter portare a referendum popolare i desiderati emendamenti. La legge prevede che occorrono fra i 340 e i 400 voti. A caccia, dunque, di venti deputati in sintonia col tradizionalismo omofobo.

giovedì 12 gennaio 2023

India, la lunga marcia trasforma Rahul

 

Ora che s’appresta ad affrontare l’ultimo tratto dei 3.500 chilometri d’un cammino attraverso il Paese-continente, inizialmente oggetto di scherno non solo fra gli avversari politici, Rahul Gandhi viene visto con altri occhi. Non solo quelli della gente che ha incrociato, giorno dopo giorno, per strade pure polverose, persone d’ogni età e ceto sociale, molti dei quali umili. Ma l’occhio clinico degli stessi commentatori politici lo considera maturo. Qualche scettico sostiene sia un’operazione mediatica, mirata e confezionata. Però una buona valutazione della sua scelta, e probabile metamorfosi, la offre anche qualche decano dell’analisi politica interna. Camminare è un gesto semplice per l’individuo normodotato, camminare a lungo ogni giorno, diventa meno frequente e scontato. Gandhi junior lo sta praticando da tre mesi fra gli indiani, e a chi lo saluta, scambia opinioni, sorrisi e pure selfie, si aggiungono gruppi che gli si affiancano da settimane. L’apprezzamento ricevuto da certi giornalisti va oltre l’iniziativa che è un bagno di folla propagandistico. C’è chi ci legge una maturazione a leader. Solo per aver incrociato gli sguardi dei cittadini da pari a pari, sudando e soffrendo il freddo? Un po’ sì. Rahul – spiegano analisti interni – mostra nuove intenzioni, non quelle del politico che s’apre alle masse con un comizio, un incontro pubblico. Per la sua passeggiata in terra indiana anche quella scomoda - a breve giungerà in quota nella regione del Kashmir - viene utilizzato il termine yatra, cioè pellegrinaggio. Gli si attribuisce una trasformazione filosofica, quasi spirituale. E se c’è chi deride un forzato paragone col Mahatma, da cui riprende per ragioni familiari solo il nome essendo figlio di Rajiv e nipote di Indira ch’era a sua volta figlia di Nehru, la nuova fase che gli si prospetta non è più quella d’essere il rampollo d’un clan che con bisnonno, nonna e padre ha caratterizzato un lungo tratto della storia indiana, accreditandolo come politico per status acquisito.  Un politico ma non leader, si diceva fino a ieri. Dopo questo passaggio, e non certo per imprese camminatorie, il futuro si apre. L’ha accennato lui stesso rispondendo ad alcune domande in un improvvisato incontro coi cronisti “Chi vuole contrastare l’egemonia del Bharatiya Janata Party (Bjp) si sta svegliando” ha dichiarato.  E spiega in quale modo. Rispetto all’uso esasperato della religione hindu, sempre più marchiata dall’ideologia dell’hindutva che manipola la fede soggiogandola a un’interpretazione faziosa, razzista, esclusivista verso i non-hindu, Gandhi riscopre l’appartenenza nazionale, non quella nazionalista, la fede interreligiosa, non il credo fondamentalista. E’ una linea che affascina, tanti incontrandolo e parlando con lui hanno aderito ai propositi. Alle elezioni del 2024 il Partito del Congresso, da anni ai margini ai vertici della Federazione e in molti Stati, potrebbe ritrovare credibilità.  Chissà se Modi e i suoi arancioni riterranno ancora fruttuoso il richiamo al messaggio del bastone che prevale nelle adunate dei propri fan picchiatori.

martedì 10 gennaio 2023

Egitto, un’inflazione pazzesca

 

Lira, sterlina, gineih in Egitto la moneta dall’epoca del protettorato britannico a quella della nazione autonoma ha mantenuto varie definizioni. Ciò che da mesi preoccupa una popolazione ormai di cento milioni di persone, la cui metà può essere considerata povera, è il valore della moneta stessa. Un valore in caduta libera anche per talune recenti decisioni della locale Banca Centrale che per aumentare il tasso d’interesse svaluta la sterlina egiziana con contraccolpi non indifferenti sui conti dei cittadini. I loro risparmi in valuta nazionale precipitano, mentre a causa di un’inflazione crescente (attualmente al 19,1% ma si prospetta giunga entro un mese al 25%) il costo della vita esplode. Non la cronaca finanziaria, ma quella economica ordinaria parla d’un paniere della spesa dove i generi di prima nutrizione (pane, uova, farine) salgono del 4,5% ogni mese, così a novembre e dicembre. Se a questo s’aggiungono le difficoltà, già in atto dall’estate scorsa, di ricevere cereali dall’Ucraina per l’estenuante guerra, il costo del pasto principale della gente comune continua a crescere. L’economia turistica, provata dal biennio di pandemia, stenta a riprendere, fra l’altro il Mar Rosso era una meta frequentata da quei russi che potevano permetterselo e che ora si muovono poco sempre per la tensione geopolitica. Alcuni esperti affermano che le scelte monetarie della Banca d’Egitto rientrano nelle manovre governative volte ad assecondare i piani del Fondo Monetario Internazionale per ottenere prestiti più corposi dei tre miliardi di dollari elargiti in previsione di riforme. Fra queste rientra il disegno della svalutazione, diventata una merce di scambio che colpisce duramente gli strati deboli. Un’eutanasia degli egiziani poveri, ma anche un pesante livellamento del ceto medio. Se per un verso la merce egiziana diventa meno costosa - ma sono venuti meno, ad esempio, i manufatti tessili dismessi da tempo per la chiusura di fabbriche, mentre le merci più comuni sono beni agricoli deteriorabili quali frutta e verdura - i prodotti meccanici ed elettronici provenienti da mercati esteri risultano più cari del 2021-22. E quindi inavvicinabili per un’infinità di acquirenti. Il disastro dovrebbe indebolire il potere del governo Sisi - incentrato su propaganda per i fedeli, galera e terrore per gli oppositori - sebbene per ora tace ogni protesta. Oggi un dollaro si cambiava a 27.5 sterline egiziane. Domani chissà.  

venerdì 6 gennaio 2023

India, sospesa la demolizione nella “Jihad land"

 

Bloccata, per ora, l’ordinanza di demolizione di oltre quattromila abitazioni, molte delle quali fatiscenti, a Haldwani, sobborgo di Kathgodam, India settentrionale, Stato dell’Uttarakhand. La Corte Suprema visto il numero delle persone coinvolte, oltre cinquantamila cioè una buona fetta della popolazione della regione che nel 2001 contava 134.000 abitanti e che ora dovrebbe aver almeno raddoppiato il numero, considera controproducente l’emergenza che ne deriverebbe. Non solo per ragioni umanitarie, ma per gli stessi risvolti d’ordine pubblico, poiché gli interessati dal 20 dicembre sono in agitazione. Comunque l’elemento sociale deve fare i conti con aspetti politico-amministrativi e religiosi della vicenda. Se da una parte quei cittadini agitano documenti che li rendono locatari di case esistenti dal 1940 o affidatari di terreni su cui hanno costruito precarie bicocche con tanto di benestare delle autorità dei decenni passati, gli attuali gestori della municipalità affermano che quello spazio dovrà implementare il servizio ferroviario. Alcuni binari esistono da tempo, sfiorano le case, nessuno sa dire se costruire prima o dopo l’impianto di trasporto. La società ferroviaria proclama d’essere proprietaria dei terreni, attivisti dei diritti controbattono che quella documentazione non esiste o è falsa. I giudici non si sono pronunciati nel merito, almeno per ora. Al di là della razionalizzazione abitativa e delle comunicazioni la controversia assume contorni confessional-politici perché i governanti che puntano a sfratti e demolizioni appartengono al Bahratiya Janata Party (Bjp) e gli abitanti dell’area sono in maggioranza musulmani e dalit. Per rafforzare la propria posizione i primi, attraverso media locali e nazionali, definiscono il territorio “jihad land”. 

 

Non è la prima zona indiana a essere bollata in tal modo.   Le teorie pesantemente razziste dell’hindutva cercano ogni appiglio per attuare apartheid e pulizia etno-religiosa nei confronti delle minoranze. I cittadini di Haldwani ricevono il sostegno di avvocati e attivisti dei diritti, al di là dell’età alcuni di loro affermano che non si muoveranno a costo di venir seppelliti sotto le macerie della casa abbattuta. Il compromesso prevedibile, dal momento che il Bjp si prepara alle elezioni dell’anno venturo con un programma di rinnovamento strutturale per l’altra competizione (economica) regionale e globale col competitore cinese, è che la ferrovia amplierà le installazioni e gli abitanti verranno spostati altrove, magari in abitazioni migliori. Del resto anche in altri Stati è in corso la politica definita “del bulldozer”. Per bocca del premier dell’Uttar Pradesh, il monaco Yogi Adityanath, in odore di premierato nazionale poiché Modi dopo due mandati non potrà ripresentarsi, “i bulldozer possono essere segno di crescita e benessere”. Così ha detto Times of India riguardo agli abbattimenti avvenuti in alcune aree del suo Stato, anch’esso a copiosa presenza islamica. Vicino all’aeroporto di Jewar dovrebbe sorgere un nuovo polo cinematografico, proposta che ha immediatamente creato tensioni con la Bollywood di Mumbai. Serafico il monaco arancione ha tranquillizzato: “Mumbai è Mumbai. E’ la terra dell’economia, noi siamo terra della fede. Ci può essere confluenza fra le due. Non trasferiremo altrove la città del cinema, stiamo solo costruendo la nostra”. Affari accanto a politica e preghiere, come Adityanath ha mostrato nelle settimane che precedono il summit del prossimo febbraio di investitori globali che porterà nell’Uttar Pradesh migliaia d’imprenditori. La nuova India prepara un confronto che stride non solo coi diritti dei meno abbienti e garantiti, ma pure col suo contraddittorio presente.

mercoledì 4 gennaio 2023

Leadership pakistana sotto tiro

 

La minaccia arriva diretta al premier Sharif e al ministro degli Esteri Zardari, l’annuncia il portavoce dei Tehreek-i Taliban Muhammad Khorasani. Il concetto è chiarissimo: per molto tempo TTP non ha intrapreso azioni contro i politici, ma se alcuni partiti (Lega Musulmana-Nawaz e Partito del Popolo Pakistano) insisteranno nella caccia ai membri dell’organizzazione islamista certe azioni coinvolgeranno anche i leader. Quando parlano di “azioni” gli studenti coranici pakistani si riferiscono a quel che fanno a militari e poliziotti: assalti mortali. Dopo l’archiviazione del cessate il fuoco da parte del gruppo armato a fine novembre, il governo di Islamabad ha contato in un solo mese 150 di queste azioni. Alcune solo dimostrative, dunque senza vittime, altre proprio no. Il Comitato della Sicurezza Nazionale, di cui fanno parte Shehbaz Sharif e il neo capo dell’Esercito generale Munir, sono in allarme e studiano contromisure. Ci sono stati contatti col Dipartimento di Stato americano, preoccupato a sua volta, che ha proposto raid entro il confine afghano dove i TTP riparano volentieri a seguito di attentati. Lì godono da tempo della copertura dei talebani kabulioti. Coi quali, comunque, Washington ha firmato accordi che escludono sostegno a gruppi terroristi. Si tratta un po’ d’un gioco delle parti: all’epoca della sottoscrizione a Doha del patto di disimpegno dall’Afghanistan i militari statunitensi sapevano che firmare quelle carte era come mettere una firma sulla sabbia. Ma tutto faceva coreografia e spettacolo: quel punto serviva da alibi alla propria ritirata. Ora i vertici dell’Emirato, pur isolati come sono nel contesto mondiale, mimano un rispetto dell’accordo e fingono che da oriente non ci siano infiltrazioni di compagni d’armi e d’ideologia. Al più ammettono a mezza bocca che qualche passaggio di Tehreek giunge per iniziativa del clan Haqqani, sempre refrattario a regole e patti, sebbene dall’agosto 2021 vanti il leader Sirajuddin nel ruolo di ministro della Difesa. Però davanti all’ipotesi di operazioni militari di confine dei pakistani (c’è stata qualche scaramuccia tempo addietro) a Kabul levano gli scudi a difesa del suolo e dell’Emirato. Per ora nessuna operazione simile a quella che nel 2013 seminò morte più di civili che di talebani nel Waziristan settentrionale, è stata pianificata. Rivolta al territorio afghano sarebbe un atto di guerra cui Islamabad non vuol pensare nonostante le pressioni mostrate da mister Prince, il portavoce del Dipartimento di Stato Usa. Certo, qualora l’escalation TTP dovesse crescere, soprattutto se rivolta al mondo politico pakistano, il clima sul limite poroso fra le due nazioni diverrebbe rovente. L’attuale esecutivo pakistano si troverebbe sulla graticola per aver interrotto le trattative coi taliban, che il primo ministro estromesso Khan aveva intavolato, e per non riuscire a garantire alcuna sicurezza interna. Nei trascorsi dei miliziani Tehreek, accanto a vendette incrociate come quella portata nel 2014 alla scuola di Peshawar dove studiavano figli di militari (156 vittime), e due anni dopo la strage nel parco giochi di Lahore (72 morti), pesa il precedente dell’attentato alla premier Benazir Bhutto nel 2007. Presunti killer vennero arrestati, condannati ma poi prosciolti per mancanza di prove evidenti. Rimasero in carcere per altri reati. Messi alle strette i TTP ripropongono di mirare ai politici, e la stampa interna già parla di dejà vu.

 

lunedì 2 gennaio 2023

Turchia: elezioni del centenario con o contro Erdoğan

 

C’è un amore che potrebbe svanire, dal Corno d’Oro all’Anatolia profonda, quello fra l’uomo-Stato e padre della Patria ormai più musulmana che kemalista e la maggioranza del popolo turco. Così sostengono detrattori e oppositori di Recep Tayyip Erdoğan in base alle attuali proiezioni del consenso per il partito di maggioranza Adalet ve Kalkınma Partisi (Akp) scese al 32%. O almeno questo sognerebbero accadesse alle consultazioni del 2023. L’anno che è di per sé un simbolo, il centenario della moderna Turchia, dovrà sancire se l’ex ragazzo del popoloso quartiere di Kasımpașa - divenuto primo cittadino istanbuliota poi leader nazionale, Primo Ministro, Presidente e dal 2017, grazie alla nuova Costituzione votata anche dai Lupi grigi del Milliyetçi Hareket Partisi (Mhp) diventati strettissimi alleati, iper-presidente d’una nazione china alla sua volontà - resta il politico turco più longevo nel rapporto col potere. Quel presidenzialismo, ribadito dal referendum popolare, è solo la conferma d’una personalizzazione che ha radici profonde nella storia recente e passata del Paese nato dalla disgregazione dell’Impero Ottomano. Perché il paternalismo e il senso di protezione offerti dal sultano alla umma islamica e alle comunità religiose del millet, restano nel substrato culturale e psicologico transitato nella nazione di Atatürk e nelle leadership che dal secondo dopoguerra si sono succedute, sotto l’impronta kemalista o neo-ottomana, comunque rivolte al capitalismo e liberismo pur di sfuggire al liberalismo o al comunismo. Una Turchia divisa fra laicismo e islamismo che più d’uno storico considera poco propensa alla democrazia borghese, affascinata invece dal ruolo del grande capo. 

 

Con simili premesse Erdoğan, anche ora che sfiora i settant’anni, ha doti da vendere davanti a figure sbiadite o dal carisma tutto da definire come ‘il vecchio e il nuovo’ presenti nel Çumhuriyet Halk Partisi (Chp), raggruppamento storico, fondato da Mustafa Kemal in persona. Chi ne raccoglie il nome, Kemal Kılıçdaroğlu, conserva la guida da oltre un decennio, ma resta in sella più per l’appoggio della forte comunità alevita cui appartiene che per capacità soggettive. Col cinquantaduenne Ekrem İmamoğlu, uno dei sindaci della riscossa anti-regime delle amministrative 2019 insediato nella metropoli sul Bosforo, l’idea d’un possibile cambiamento al vertice del Paese potrebbe prendere corpo. Lui mostra un differente approccio alla politica, pur nell’osservanza del Corano e nella pratica islamica cui non si sottrae. E’ mite e unificante, l’opposto del fiammeggiante presidente, però deve convincere una nazione abituata a pensare in grande, sebbene quest’indirizzo abbia prodotto problemi e contraddizioni diventate da un triennio cocenti. La sua corsa è comunque in salita: il panorama internazionale in cui la Turchia è inserita costituisce un contesto molto più oneroso rispetto alla conduzione d’una metropoli, pur immensa come Istanbul. E per un’offesa pronunciata a seguito d’un battibecco polemico dopo la sua elezione, rischia d’essere escluso da una condanna della magistratura. Non mostrano sprint presidenziale neppure i due transfughi del partito di governo: gli esperti ex ministro delle Finanze Babacan e l’ex responsabile degli Esteri Davutoğlu, allontanatisi dal patriarca e creatori di due formazioni d’opposizione, rispettivamente Demokrasi ve Atılım Partisi (Deva) e  Gelecek Partisi (GP) date a percentuali minime del 3-4%. Altri gruppi politici che ostacolano il perpetuare dell’erdoğanismo sono: İyi Parti (İyi), creatura dell’ex lupa grigia Meral Akşener fuoriuscita nel 2017 dal movimento nazionalista, diventato sempre più dominio personale e maschilista del leader Bahçeli. Demokrat Parti (DP) attualmente guidato dall’affarista Gültekin Uysal e il secondo partito islamista, Saadet Parti (SP), da un quinquennio diretto dall’ingegner Karamollaoğlu, un’altra formazione che non supera il 2%. 

 

Certo, se nell’urna delle politiche l’elettore trovasse questo sestetto unito perlomeno in una coalizione con un programma minimo, il progetto potrebbe diventare un ostacolo per l’ennesima corsa di potere dell’Akp. Ma l’alleanza coi nazionalisti ha ridato fiato a Erdoğan non solo nella revisione della Costituzione. Ha creato un fronte ultraconservatore che s’alimenta del desiderio egemonico turco: dal Mediterraneo, negli scenari bellici siriano e libico, passando per i tavoli di mediazione d’ogni crisi mondiale, e si cementa nel disegno securitario interno contro il pericolo del “terrorismo” kurdo. Una proposta su cui insiste Bahçeli è la messa al bando del Halkların Demokratik Partisi (Hdp), i cui due co-presidenti Selahattin Demirtaş e Figen Yüksekdağ, più altri tredici deputati sono in galera dal novembre 2016. C’è chi vorrebbe lasciarceli, come il seppellito vivo nell’isola-prigione di İmralı: Abdullah Öcalan. Per tutti l’accusa di assecondare il Partîya Karkerén Kurdîstan (Pkk), già fuorilegge poiché considerato un’organizzazione terroristica, posizione peraltro sostenuta da Stati Uniti e Unione Europea. L’accusa di fiancheggiamento è rigettata dai membri dell’Hdp, ma la solidarietà di cui godono in alcuni Stati occidentali, compresa quella di ripararvi come rifugiati, è ultimamente messa in bilico dalle mosse atlantiste di Erdoğan che baratta il suo assenso all’ingresso nella Nato delle neutrali Svezia e Finlandia in cambio della loro indisponibilità ad aprire le porte di casa alla dissidenza kurda, armata e non. Eccoli, dunque, alcuni nodi internazionali che incombono sulle elezioni turche del prossimo giugno. Fra parentesi impedire al voto kurdo di posizionarsi sull’Hdp significa azzerare un elettorato che nel 2015 contava il 13%  dei consensi. Non è detto che questo voto finirebbe nell’astensione, che in Turchia è sempre molto, molto bassa. 

 

Complotti esterni e sicurezza diventano il fulcro del programma dell’attuale governo che, dalle reiterate sette emergenze contro i golpisti fethullahçi (i seguaci di Fethullah Gülen) durate un triennio, con epurazioni e persecuzioni di decine di migliaia fra militari, poliziotti, magistrati, docenti, giornalisti finanche intellettuali e artisti, s’allarga ai pericoli di altri scenari di terrore, come quello recente, seminato sulla storica  Istiklal Caddesi, che ha fatto sei vittime e oltre ottanta feriti. Il Paese aveva già dato tanto sangue, fra il 2015 e il 2019, con stragi di matrice islamica (Isis) e l’armatismo dissidente kurdo (Falchi della libertà) visto che col Pkk, tornato combattente, lo scontro è attorcigliato fra i suoi agguati ai militari turchi e le retate di quest’ultimi nelle province orientali non prive di uccisioni di civili. Per l’area di quel che è stato il Rojava e la sua autodeterminazione in punta di fucile, oltre alle punizioni dal cielo sulle ‘Unità di Protezione del Popolo’ il piano già applicato da anni di creare una fascia di sicurezza larga 15-17 miglia fra la Turchia meridionale e la Siria settentrionale, lungo l’asse Afrin-Kobanê-Cizre, è diventato una realtà pattugliata da Ankara coi carri armati. E’ lì che il governo vorrebbe trasferire le famiglie siriane trasformatesi in un problema. Il rapporto inizialmente benevolo con strati più poveri della popolazione turca s’è deteriorato, i siriani “rubano” lavoro ai locali, ovviamente lavoro in nero, ma tant’è. La propaganda che cavalca un’insofferenza trasformata in malcontento è una variabile che già ha prodotto fuga di consensi all’Apk. Da qui l’idea della migrazione forzata in quell’unica zona dei siriani, finora accolti un po’ ovunque. Se il primo decennio di potere erdoğaniano ha rappresentato una giostra di fiducia e consensi popolari, secondo gli anti-Erdoğan l’aria sul Bosforo è mutata. 

 

Carovita e un’inflazione al 100% erodono il benessere vissuto da inizio millennio dal ceto medio e pure dagli strati più umili. Tutti beneficiavano del boom scomparso da almeno tre anni, non per la pandemia e le speculazioni attorno alle guerre, ma per una flessione d’investimenti esteri e per le personali teorie finanziarie con cui il presidente si scontra con esperti mondiali e coi suoi ministri dell’economia (ne ha sostituiti tre in un anno). A suo dire alte aliquote d’interesse causano l’aumento inflazionistico, invece tassi bassi stimolano la crescita, incrementano l’esportazione e creano lavoro. Però gli investimenti stranieri continuano a calare, di recente Wolkswagen ha rinunciato a un grosso impianto previsto a Izmir. Erdoğan accusa attacchi alla lira frutto di volute turbolenze straniere sui mercati. E se i dati del terzo trimestre di quest’anno mostrano una crescita pari al 7%, gli analisti ammoniscono: l’aumento potrebbe risultare fittizio e avere breve durata per l’elevata inflazione e il crollo valutario. Eppure il super-Io del presidente riesce tuttora ad ammaliare. La modernità nella tradizione proposta al popolo è basata su fatti e le fantasmagoriche infrastrutture finora realizzate, dentro e attorno l’area di Istanbul, sono la vetrina della Turchia che raggiunge il centenario e rilancia. La creazione attesa per il 2028 è il secondo canale parallelo al Bosforo. Andando a ritroso, nel marzo di quest’anno, l’ultimo gioiello è stato il ponte Çanakkale 1915 che attraversa i Dardanelli e riduce a cinque minuti d’auto il passaggio dall’Europa (Gallipoli) all’Asia (Lapseki) e viceversa, per un pedaggio di 12 euro. Coi suoi duemila e ventitré metri di luce fra le due torri è diventato il ponte sospeso più lungo al mondo, superando quello giapponese nello stretto di Akashi. A fine 2018 è stata avviata la prima area del mega aeroporto Istanbul del consorzio IGA, anch’esso un’opera da record: 76 milioni di metri quadrati di superficie che lo fa primo al mondo per un traffico previsto di 150 milioni di passeggeri all’anno. Il 26 agosto 2016, quaranta giorni dopo il tentativo di golpe, era andata a buon fine l’inaugurazione del terzo ponte sul Bosforo dedicato a Sultan Selim

 

Così nel 2013 i tumulti giovanili del Gezi Park non rallentarono i lavori del collegamento metropolitano fra la zona europea e quella asiatica tramite il mega tunnel sotto il Bosforo percorso da Marmaray, 13 km di cui 1,5 sommersi a 62 metri di profondità. Un’idea che gli annali storici narrano sfiorasse i desideri già del sultano Abdoul Medjid nel 1860, e che il moderno ‘sultano’ ha sostenuto con tutte le sue forze, comprendendone non solo l’avveniristica efficacia, ma l’impatto emotivo sulla gente. Né va dimenticato, in una fase di bisogno energetico mondiale, il gasdotto TurkStream già in funzione dal 2020. Né il primo dei quattro reattori nucleari della Centrale Akkuyu, nella provincia meridionale di Mersin, che entrerà in funzione a fine 2022. Frutto d’un ulteriore partenariato con Putin (ne è investita la società  russa Rosatom), anche perché la Ue reitera il suo ostracismo ad Ankara. Sul banco della personale sfida presidenzialista e su quello d’un sistema che si richiama a se stesso Erdoğan fa pesare uno spasmodico attivismo internazionale, diventato conciliante con ex avversari regionali, dal sionismo di Tel Aviv, al turbocapitalismo visionario e cinico di bin Salman. Ultimamente i rapporti risultano distesi addirittura con la Grecia, con cui il leader turco non battaglia più attorno alle Zone Economiche Esclusive coinvolte nei giacimenti di gas del Mediterraneo orientale. Gli avversari dell’urna non hanno una lista di obiettivi raggiunti e neppure di progetti altrettanto ambiziosi da proporre agli elettori. Possono reclamare libertà e diritti civili, tallone d’Achille del partito del presidente e dei suoi alleati. Ma quanti cittadini prestano orecchio a questi valori?
 
(articolo pubblicato sul mensile "Confronti" gennaio 2023)