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martedì 25 gennaio 2022

Hariri, un addio che il Libano non rimpiange

Finisce con un ritiro l’eclissi politica dell’ex premier libanese Said Hariri, già oscurato da un quinquennio per volere di bin Salman, ben più cinico e delinquenziale degli interessi di casa Saud da sempre mallevadrice della famiglia Hariri. Ma papà Rafiq riusciva a muoversi fra sceicchi ed emiri, suoi sponsor per tutti gli anni Novanta a sostegno d’una “rinascita” libanese che faceva il verso al Libano coloniale francese un po’ bordello, un po’ paradiso fiscale dei magnati europei o d’Oltreoceano. Così la ricostruzione della bella Beirut avveniva con grattacieli sauditi che soffocavano gli edifici primi Novecento, l’unico fiore ereditato del capitalismo parigino ereditato dalla capitale levantina. Di fronte alla spettrale immagine urbana post guerra civile, ridare alloggio a due milioni di cittadini era esigenza primaria, però la rinascita aveva orizzonti edilizi e bancari, fra le prime diversificazioni dei petrodollari sauditi che viaggiavano anche verso altri lidi. Durò poco più d’un decennio la ricetta con cui Rafiq Hariri curava il suo Libano, cedendo ovviamente a cristiano-maroniti un’altra fetta di affari e spartendo il potere per tre anche con la comunità sciita. L’accordo stipulato a Taif prevedeva riconoscimenti alle tre etnìe più i drusi, poi le periodiche elezioni consegnavano percentuali di seggi nel Majlis. Però la maledizione governativa legava inevitabilmente gli uni agli altri, nessuno schieramento riusciva a fare il pieno di voti e governare fuori da patteggiamenti, compromessi, passi a metà, voltafaccia. In più ogni componente continua a vivere attorno a gruppi di potere più che stagionati: i nomi degli Hariri, Gemayel, Geagea, Aoun, Jumblatt, Nasrallah conservano clan, dinastie o i medesimi protagonisti da oltre un trentennio. Il percorso che doveva cambiare il volto della nazione e non è giunto da nessuna parte. Per interessi, tensioni interne, ingerenze esterne, veti incrociati, fino all’instabilità voluta da terzi - Israele, Siria, Iran - o all’incuria responsabile di “sciagure” come l’esplosione al porto beirutino che ha sotterrato oltre duecento persone e devastato un pezzo di città. 

 

Hariri figlio, prigioniero dell’entourage paterno comprensivo anche di affari familiari, aveva guidato l’esecutivo una prima volta nel 2005 a ridosso dell’attentato a Rafiq, fatto saltare in aria con un camion-bomba, quindi nel 2009. Poi ancora nel 2016 fino al 2019 quando un’economia senza risorse, che non fossero aiuti del Fondo Monetario, al solito subordinati a contropartite politiche, o le sempre meno interessate capitalizzazioni delle petromonarchie che investivano altrove, collassava. I cittadini libanesi si sentivano alla stregua non solo dei palestinesi stanziali da decenni nei campi profughi, ma del milione e passa di siriani parcheggiati per sistemazioni difficilmente contrattabili. Inflazione alle stelle per una lira interna senza valore davanti a un’economia stagnante, imprenditori latitanti o espatriati su altri mercati e un ceto politico disposto a quadrato, più o meno armato, delle proprie enclavi e dei privilegi ereditati.  Dopo il botto del porto il presidente francese Macron apparve per promuovere un soccorso protezionistico dal tanfo neocoloniale. Del resto gli stessi padrini sauditi oltre a tenere in ostaggio, anche fisico, Said non lanciavano progetti, disinteressati a un territorio su cui il Partito di Dio, per una fase difensore della patria dal grinfie israeliane, si trasformava in milizia mercenaria a sostegno della Siria di Asad, quasi smarrendo la memoria di quando Damasco era l’altra faccia di Tel Aviv in fatto di spartizione del cedro libanese ridotto a fuscello. Così al fantasma di suo padre, l’Hariri minore aggiungeva quel disinteresse o, assai probabilmente, l’incapacità di spendere voce per un popolo prim’ancora che diviso in quattro, differenziato fra i pochi che possono e i tanti costretti ad arrangiare le giornate. Sotto lo spettro d’uno Stato fallito, davanti alle proteste d’una gioventù che provava a superare logiche spartitorie cementate da ogni etnìa, l’ex premier si consolava con un’amante sudafricana cui regalava milioni di dollari. Erano suoi, non del disastrato erario, ma l’immagine pubblica e privata era distrutta ben prima dell’attuale ritiro.

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