Finisce con un ritiro l’eclissi
politica dell’ex premier libanese
Said Hariri, già oscurato da un quinquennio per volere di bin Salman, ben più
cinico e delinquenziale degli interessi di casa Saud da sempre mallevadrice
della famiglia Hariri. Ma papà Rafiq riusciva a muoversi fra sceicchi ed emiri,
suoi sponsor per tutti gli anni Novanta a sostegno d’una “rinascita” libanese
che faceva il verso al Libano coloniale francese un po’ bordello, un po’
paradiso fiscale dei magnati europei o d’Oltreoceano. Così la ricostruzione
della bella Beirut avveniva con grattacieli sauditi che soffocavano gli edifici
primi Novecento, l’unico fiore ereditato del capitalismo parigino ereditato dalla
capitale levantina. Di fronte alla spettrale immagine urbana post guerra
civile, ridare alloggio a due milioni di cittadini era esigenza primaria, però
la rinascita aveva orizzonti edilizi e bancari, fra le prime diversificazioni
dei petrodollari sauditi che viaggiavano anche verso altri lidi. Durò poco più
d’un decennio la ricetta con cui Rafiq Hariri curava il suo Libano, cedendo
ovviamente a cristiano-maroniti un’altra fetta di affari e spartendo il potere
per tre anche con la comunità sciita. L’accordo stipulato a Taif prevedeva
riconoscimenti alle tre etnìe più i drusi, poi le periodiche elezioni
consegnavano percentuali di seggi nel Majlis. Però la maledizione governativa
legava inevitabilmente gli uni agli altri, nessuno schieramento riusciva a fare
il pieno di voti e governare fuori da patteggiamenti, compromessi, passi a metà,
voltafaccia. In più ogni componente continua a vivere attorno a gruppi di
potere più che stagionati: i nomi degli Hariri, Gemayel, Geagea, Aoun, Jumblatt,
Nasrallah conservano clan, dinastie o i medesimi protagonisti da oltre un
trentennio. Il percorso che doveva cambiare il volto della nazione e non è
giunto da nessuna parte. Per interessi, tensioni interne, ingerenze esterne,
veti incrociati, fino all’instabilità voluta da terzi - Israele, Siria, Iran -
o all’incuria responsabile di “sciagure” come l’esplosione al porto beirutino
che ha sotterrato oltre duecento persone e devastato un pezzo di città.
Hariri figlio,
prigioniero
dell’entourage paterno comprensivo anche di affari familiari, aveva guidato
l’esecutivo una prima volta nel 2005 a ridosso dell’attentato a Rafiq, fatto
saltare in aria con un camion-bomba, quindi nel 2009. Poi ancora nel 2016 fino
al 2019 quando un’economia senza risorse, che non fossero aiuti del Fondo
Monetario, al solito subordinati a contropartite politiche, o le sempre meno
interessate capitalizzazioni delle petromonarchie che investivano altrove,
collassava. I cittadini libanesi si sentivano alla stregua non solo dei
palestinesi stanziali da decenni nei campi profughi, ma del milione e passa di
siriani parcheggiati per sistemazioni difficilmente contrattabili. Inflazione
alle stelle per una lira interna senza valore davanti a un’economia stagnante,
imprenditori latitanti o espatriati su altri mercati e un ceto politico
disposto a quadrato, più o meno armato, delle proprie enclavi e dei privilegi
ereditati. Dopo il botto del porto il
presidente francese Macron apparve per promuovere un soccorso protezionistico
dal tanfo neocoloniale. Del resto gli stessi padrini sauditi oltre a tenere in
ostaggio, anche fisico, Said non lanciavano progetti, disinteressati a un
territorio su cui il Partito di Dio, per una fase difensore della patria dal
grinfie israeliane, si trasformava in milizia mercenaria a sostegno della Siria
di Asad, quasi smarrendo la memoria di quando Damasco era l’altra faccia di Tel
Aviv in fatto di spartizione del cedro libanese ridotto a fuscello. Così al
fantasma di suo padre, l’Hariri minore aggiungeva quel disinteresse o, assai
probabilmente, l’incapacità di spendere voce per un popolo prim’ancora che
diviso in quattro, differenziato fra i pochi che possono e i tanti costretti ad
arrangiare le giornate. Sotto lo spettro d’uno Stato fallito, davanti alle
proteste d’una gioventù che provava a superare logiche spartitorie cementate da
ogni etnìa, l’ex premier si consolava con un’amante sudafricana cui regalava
milioni di dollari. Erano suoi, non del disastrato erario, ma l’immagine
pubblica e privata era distrutta ben prima dell’attuale ritiro.
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