Norvegia, Stati Uniti,
Gran Bretagna, Francia, Germania, Italia e poi Russia, Iran, Qatar, Cina,
Pakistan. Nei giorni scorsi la delegazione talebana guidata dal ministro degli
Esteri Muttaqi, condotta su un aereo norvegese sino a Oslo, ha discusso con
tutti i rappresentanti d’un pezzo di mondo interessato alla crisi umanitaria
prima che socio-politica dell’Afghanistan. Alle parole spese bisognerà vedere
se seguiranno fatti perché, come in altri colloqui e su altri tavoli, ciascuno
avanza propri interessi primari. Che sono: per l’Emirato di Kabul lo
scongelamento dei fondi bloccati nei mesi scorsi dagli Stati Uniti; per le
delegazioni occidentali garanzie di sicurezza interna nel controllo del
territorio da insediamenti terroristici e diritti civili per le donne; per le
delegazioni orientali ancora sicurezza rispetto alle formazioni terroristiche
che possono trovar riparo sul terreno afghano e insidiare con cellule armate alcune
nazioni. Ciascuno avanza suoi intenti, solo i delegati Onu e di certe Ong attive
nel Paese, hanno richiamato l’attuale emergenza primaria: la carenza di
forniture alimentari in un inverno durissimo, seguìto a due stagioni di siccità
spaventosa che ha azzerato la produzione agricola interna, già sotto
dimensionata per i conflitti locali. Ma c’è chi ricorda che i taliban, ora vestiti
con le mimetiche dell’imploso esercito di Kabul, operano vendette, in questi
mesi hanno fatto fuori un centinaio di ex militari fedeli a Ghani nonostante
avessero promesso un’amnistia. Hanno compiuto una cinquantina d’esecuzioni a
sangue freddo di miliziani, o sospetti tali, dell’Isis Khorasan privandoli di
processo; hanno effettuato esecuzioni capitali per impiccagione di persone
accusate di furto. Hanno chiuso scuole femminili, sebbene il portavoce
governativo Zabihullah dichiari che dal prossimo febbraio verranno riaperte. E
ancora: restrizioni al lavoro femminile e alla stessa circolazione per via
senza un uomo di famiglia, oltre alle bastonature di manifestanti e dei sempre
odiati giornalisti.
Alcune esponenti afghane
ammesse agli incontri norvegesi ribadiscono come la sostanza talebana non sia
cambiata, osservatori ne notano l’accresciuta diplomazia e la disponibilità al
dialogo, seppure quest’ultima sia legata alla prima che mira a trovare alleanze
evitando l’isolamento internazionale. Anche perché alla diffusa ostilità di una
parte della popolazione, soprattutto dei centri urbani, che non tollera il reiterato
fondamentalismo, s’aggiunge la concorrenza politico-militare dei dissidenti che
da anni si propongono con la sigla dello Stato Islamico, insidiandone la
supremazia nelle aree rurali e mettendo a nudo la presunta capacità talib di
controllare ogni angolo del Paese. Non è stato così durante il tragico
quinquennio dei reiterati attentati che dal 2016 hanno tracciato lunghissime
strisce di sangue un po’ ovunque. Al Gotha talebano - che col premier Akhund, Sirajuddin
Haqqani ministro dell’Interno, Yaqoob della Difesa - s’è spartito il potere incentrato
sulla forza, mancano le forze tecniche per condurre economia e amministrazione.
Si tratta di due settori resi spettrali dal ventennio dell’occupazione Nato e
dai governi fantoccio che ne hanno accondisceso il conseguente vuoto di
orizzonti, ma questo non salva i turbanti dal ruolo assunto, anzi ne complica
la prassi come dimostrano i sei mesi finora trascorsi. Condurre a una sorta di
normalità una popolazione abituata a vivere di promesse e sussidi, resa succube
da intenti di dominio interno ed esterno dovrebbe prevedere una rifondazione
cui il clan talebano e i vecchi clan che nuovamente si ripropongono, è di
questi giorni l’autocandidatura dello spolpatore Karzai, non possono né
vogliono praticare. Tacendo i progetti degli stessi interlocutori del tavolo di
Oslo, in gran parte interessati solo alla propria agenda.
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