Cinque anni da ministro, dal 2015 al 2018 dell’Energia, negli
ultimi due alle Finanze, ma da ieri Berat Albaykar, marito di Esra, secondogenita
di Recep Tayyip Erdoğan, non ha incarichi. S’è dimesso. Ufficialmente per
motivi di salute e per star accanto ai familiari (con Esra hanno quattro figli)
che avrebbe troppo trascurato per la troppa dedizione alla politica. Bisognerà
vedere se il presidente-suocero accetterà la conversione casalinga. Le dimissioni
del responsabile dell’Interno Soylu furono rifiutate e il ministro è stato
costretto a proseguire nell’incarico. Mentre già si solleva l’eco nostalgico affinché
Albaykan non lasci: “Il nostro Paese, il
nostro popolo ha bisogno di lui” ha dichiarato il ministro dei Trasporti
Sayan, uno dei fedelissimi dell’Akp e del presidente. Eppure c’è chi valuta la
mossa come un’epurazione per porre freno a un dissesto finanziario senza pari. Due
giorni addietro l’attuale signore della Turchia aveva licenziato il governatore
della Banca Centrale Uysal, sostituendolo con l’ex ministro delle Finanze
Agbal. Girandola d’incarichi fra disarcionati, poiché anche Agbal era stato
rimosso dal dicastero per far spazio proprio ad Albaykan. Come fanno notare gli
analisti di settore la situazione finanziaria turca è allarmante, l’inflazione
corre al 15%, molte imprese sono indebitate, il valore monetario è ai minimi
storici. Le ricette per farvi fronte si sono succedute con repentine mosse anche
inverse, aumentando e abbassando i tassi d’interesse. Quest’anno la lira turca ha
perso più del 40% di valore nei confronti del dollaro statunitense. Il rapporto
import-export registra un divario negativo, ben oltre le cadute provocate ovunque
dalla pandemia Sars CoV2. La Banca Centrale ha promesso di provvedere alla
liquidità degli istituti di credito. Vari economisti criticano la posizione di
Erdoğan che ora chiede bassi tassi d’interesse, vuole che le banche elargiscano
prestiti a buon mercato per rilanciare crescita e consumi.
Dalla cancelliera Merkel giungono un consiglio e una
rassicurazione: la richiesta di garantire l’indipendenza alla Banca Centrale turca
e la certezza che nessun Paese, europeo ed extra, desideri destabilizzare
l’economia di Ankara. Invece Erdoğan in sessioni internazionali e in comizi locali
ha affermato che la caduta del valore monetario della lira sui mercati sia
frutto di “terrorismo economico”. Ovviamente
fa il suo gioco, evitando di valutare errori propri e del genero, però che un
pezzo di geopolitica sia stata gettata nella finanza monetaria dal presidente
che non se ne vuole andar via dalla Casa Bianca, può rispondere a verità. Più
d’un analista sostiene come la pressione sulla lira turca sia aumentata dallo
scorso settembre anche a seguito della mancata estradizione del pastore
statunitense accusato di terrorismo dall’Intelligence anatolica. Del resto, davanti
a tanto abbandono di orientamenti politici nell’area bollente siriana, seguito
all’incarico di Trump, il presidente turco e l’omologo russo hanno dato vita a
scontri e incontri fino ad accordi economico-energetici e strategico-militari.
Washington non ha gradito e, secondo Erdoğan, la vendetta sarebbe stata
sciorinata con le turbolenze monetarie. Quanto queste posizioni potrebbero mutare
con l’amministrazione Biden, è questione tutta da verificare. Su Albaykar resta
il dubbio se si tratti di bocciatura o tutela. Il sultano protegge il clan
familiare, soprattutto quando da esso riceve coperture e vantaggi. E Berat è
stato aggregato per linea matrimoniale, doppiamente vantaggiosa: per il leader
che si contorna di soggetti fidati in via parentale e per il virgulto salito
presto nell’iperuranio del potere. Figlio d’un giornalista diventato egli
stesso politico, Albaykar dopo una laurea in economia a Istanbul e la specializzazione
a New York, era entrato nella Çalık
Holding, vera potenza dell’imprenditoria turca impegnata nei settori
energetico, estrattivo, edile, immobiliare, tessile, di telecomunicazioni e
finanza tout court.
Il giovane ci si accomoda, sino a diventarne nel 2007 amministratore
delegato, i detrattori sostengono in virtù del precedente matrimonio con Esra.
Chiacchiere a parte, la carriera di Berat è tutta in ascesa e dallo staff del
primo ministro, intanto diventato presidente, entra nel partito di governo con
un’elezione parlamentare nel giugno 2015, subito ripetuta e confermata nel
novembre dello stesso anno. In quell’occasione il premier Davutoğlu lo nomina
ministro nel settore energetico. Col progetto “National energy an mine strategy
paper” il periodo è ricordato per gli stratosferici investimenti di aziende
elettriche che hanno anche accumulato miliardi di debiti per fondi presi in
prestito sul mercato finanziario. Analisti del settore ritengono che questa sia
stata una delle zavorre del debito della lira turca a partire dal 2018. Ben al
di là degli attuali presunti ostracismi monetari mondiali. Proprio nel giugno
di quell’anno il genero del presidente rientra nel Meclis messo a punto dalla
nuova Costituzione e dopo pochi giorni il suocero Recep, lo nomina responsabile
del dicastero di Finanze e Tesoro. Immediate le dimissioni da deputato (per
incompatibilità d’incarichi in base ai dettami della Carta costituzionale) e
choc delle cronache finaziarie con la lira turca che scricchiola e perde circa
il 4% del suo valore sui mercati. C’è anche un Albaykar ‘segreto’, quello
coinvolto in fughe di denaro verso paradisi offshore per evitare il pagamento
di tasse alla Çalık Holding,
iniziativa non proprio patriottica visti mancati introiti dell’erario statale. Ben
peggiori le accuse ricevute per contrabbando di petrolio derivante dai traffici
dello Stato Islamico nel periodo del sedicente califfato di Al Baghdadi. Le contestazioni
provenivano da fonti russe, durante il braccio di ferro fra Mosca e Ankara nei
territori siriani, ed erano state riprese da alcuni esponenti del partito
repubblicano. Il governo turco ha sempre rigettato gli addebiti parlando di
macchinazione.
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