Le granate d’artiglieria pesante riprese a cadere
copiose sulle abitazioni, a Stepanakert come a Ganja, che portano i vertici
militari di Armenia e Azerbaijan a giustificare i morti civili – trecento, cinquecento?
– come “danni collaterali”, neanche fossero le potenze padrine delle due
comunità tornate a disputarsi il Nagorno Karabakh, hanno un comune fornitore:
la Russia putiniana. Che ha fatto dire al ministro Lavrov: questa guerra non
s’ha da fare, sebbene le tregue avviate il 10 e il 18 ottobre siano durate
qualche giorno e poi poche ore. Baku ed Yerevan smaniano per azzuffarsi
spargendo più sangue civile che militare. E la Russia pro armena (esiste un
trattato di difesa militare che lega l’Armenia e altre nazioni caucasiche
all’ex Urss, l’Azerbaijan non è fra queste), non ha usato nessun soldato in
funzione del medesimo accordo. Perché pensa - e lo fa dire a Lavrov - che la
diatriba si risolve sui tavoli di pace, non sui campi di battaglia. Invece gli
armeni sostengono che Ankara, come già fece in Siria, stia infiltrando o
favorendo l’accorrere di mercenari filo-azeri, filo-turchi e jihadisti. Le
prove sono finora scarse. L’ipotesi plausibile, visto che dopo il confronto muscolare
in Siria Erdoğan e Putin, avversari diventati amici, si sono misurati nel
deserto libico, pur indirettamente a suon di mercenari (in questo caso russi) e
tecnologia aerea (i droni da combattimento TB2 Bayraktar che hanno avuto la
meglio). Ma l’eventuale scontro per procura, i due uomini forti sembra non vogliano
realizzarlo, Mosca ancor più di Ankara. S’incrinerebbe un intreccio affaristico
fra due Paesi e due autocrati che nell’ultimo triennio hanno gestito
favorevolmente ed entrambi guadagnato dai musi duri e dalle strette di mano.
Come detto l’Azerbaijan non è legato da patti militari con Mosca
ma è guidato da un ex militare, Ilham Alyev, succeduto a suo padre, un politico
formatosi nel Kgb sovietico. Proprio come Putin. Nell’ultimo decennio il Paese
ha ricevuto dalla Russia, comprandole, una gran quantità di forniture belliche,
e speso addirittura 24 miliardi di dollari. Sarebbe più corretto definirli
petrodollari, poiché le molte ricchezze azere provengono dalle sue riserve
energetiche. Comunque Baku acquista armi da vari soggetti, dopo la Russia ci
sono Turchia e Israele. Simili forniture irritano il governo Pashinyan che
investe molto meno in materiale bellico (4 miliardi di dollari nello stesso
periodo, secondo dati forniti dall’Istituto di pace di Stoccolma). Il Cremlino non
si preoccupa degli altrui umori specie di quelli poco inclini ad accettare ‘suggerimenti’,
come fa l’attuale premier armeno ben disposto verso il liberismo occidentale e
critico al sostegno moscovita alle tendenze separatiste di taluni territori
(Donbass, Abkhazia, ecc). Certo nella controversia, Putin (ed Erdoğan) si
mostrano reciproci protettori delle confessioni armena e islamica, ma pare più
una posizione imposta dal ruolo pubblico che l’uno e l’altro vestono in casa propria
e sulla scena mondiale. Però talune conflittualità irrisolte possono creare
strascichi proprio ai gestori dei grandi giochi internazionali; per questo il
realistico Lavrov punta a spegnere la brace caucasica.
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