Si attivano anche le piazze pakistane. In questa fase le
strade, dove da due settimane il capo dell’Assemblea dei chierici islamici,
nonché leader del partito JUI-F, Fazl-ur Rehman sta guidando un sit-in di
protesta contro il governo. Così in migliaia gli aderenti al gruppo hanno
bloccato la più importante autostrada verso la capitale. Ora il chierico afferma
che entra in vigore una successiva fase di cui non è stato esplicitato il tipo
di contestazione, l’obiettivo sì: far dimettere il premier Imran Khan. In un
discorso pubblico Rehman tramite metafore ha parlato di attacco alle radici del
sistema, mentre ora si passerà a sezionaren il tronco. Sic! Il suo gruppo nella
protesta sta usando grandi camion articolati per le merci, trovando
evidentemente l’appoggio dei trasportatori del settore, ne scaturisce un blocco
quasi totale della comunicazione su gomma in varie zone del Paese. Ad esempio
risulta paralizzata l’autostrada fra Quetta e Chaman e con essa la direzione
verso l’Afghanistan, oltre all’afflusso di generi di consumo principalmente
alimentare. Accanto ai lavoratori dei trasporti in cui Jamiat Ulema Islam-Fazl,
che ha comunque un limitata rappresentanza parlamentare (15 seggi su 272), sta
raccogliendo consensi per il dissenso antigovernativo, il gruppo ispirato al
fondamentalismo deobandi ha un buon seguito fra insegnanti e studenti. Poiché
quest’ultimi sono studenti coranici, il rapporto con chi si estremizza e
abbraccia il Jihad armato non è automatico, ma è possibile. I grandi partiti pakistani,
la Lega Musulmana e il Pakistan People Party, pur in contrasto fra loro hanno
annuito alla protesta senza parteciparvi. Il fatto che sia colpito il Movimento
per la giustizia di Khan gli fa gioco, ma finora restano a guardare.
Rehman accusa il primo ministro d’aver prevalso nelle
contestate elezioni del 2018 grazie all’aiuto dell’esercito, da sempre il
convitato di pietra della politica nazionale. L’altra eminenza grigia è l’Isi,
l’agenzia dell’Intelligence interna. Potrebbero esser queste, in tutti i sensi,
le armi dell’ex campione di cricket salito ai vertici della politica “per
pacificare la nazione”. Certo la contraddizione risulterebbe palese, ma
occorrerà vedere quali saranno i livelli del conflitto. Poiché i manifestanti
non hanno accettato gli incontri proposti dal premier, ribadendo la linea delle
dimissioni e di nuove elezioni; lui interdice alle proteste l’area
istituzionale di Islamabad, dove cinque anni addietro guidò un sit-in durato
oltre quattro mesi. Per ora il barricadero Rehman non s’è inimicato l’esercito,
in fondo non gli conviene, ne ha definito errate alcune prese di posizione. Le
stesse critiche alla situazione economica nazionale non hanno davanti un quadro
devastante: l’economia indubbiamente rallenta anche lì, dati del Fondo
Monetario indicano una flessione dal 3.3 al 2.4 Pil, poi si sono stagnazione nel
lavoro e inflazione a doppia cifra, seppure in quote simili ad altre nazioni
(11.4%). Il braccio di ferro è prevalentemente politico, anzi ideologico. Troppo
laico, troppo borghese Khan agli occhi dei fautori dell’Islam puro deobandi.
Proprio l’ispirazione al padre della nazione pakistana Ali Jinnah, che a sua
volta pensava per il Pakistan indipendente un modello simile alla Turchia
kemalista, non rientra certo nella visione deobandi, molto conservatrice legata
al cosiddetto Taqlid, ogni genere di
tradizione tramandata nei secoli. Il sunnismo deobandi è seguìto nel Paese da
un quarto della popolazione, oltre cinquanta milioni di pakistani, che magari
non manifesteranno tutti per via, ma son molti di più degli aderenti al partito
di Rehman, e nel globalismo della politica confessionale un suo possibile incendiario
serbatoio.
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