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mercoledì 27 novembre 2019

L’Iran della vera gente fra propaganda e disincanto


Abbasso gli autori della sedizione ha gridato la vera gente. La “vera gente” secondo il portavoce del ministero degli Esteri iraniano è il popolo fedele alla Guida Suprema, all’apparato dei basij che nei giorni scorsi ha spazzato il Paese e spezzato la protesta in maniera decisa. Il governo ha ammesso venti decessi (compresi quelli di due agenti) nel corso degli scontri seguiti ai raid contro stazioni di polizia e banche sviluppatesi da nord a sud; Amnesty International aveva denunciato duecento vittime. Forse i morti sono la metà, la conta fra un regime che insabbia e un’opposizione che accresce i numeri della repressione risulta ondivaga. Di fatto vari apparati istituzionali e politici a Teheran ammettono il malcontento dopo l’aumento del prezzo del carburante, che è solo la punta dell’iceberg di quel che parecchia gente non sopporta più. Già, ma chi sono costoro? Gli sbandati che seguono la linea antiraniana, secondo l’agenzia Irna. Mentre la gente perbene, pensa altro. Eppure anche una fetta di quest’ultima menzionata dal governo - dunque anche da quella presidenza Rohani un tempo speranza di riforme, di mutazione d’indirizzo dallo strapotere della componente più conservatrice che ruota attorno a certi anzianissimi ayatollah - constata che trasformazioni positive non se ne vedono. Anzi. Sulla condizione femminile, sulla libertà di espressione e critica, sui diritti civili, l’aria che tira è più o meno quella respirata all’epoca di Ahmadinejad. Quando una parte del partito dei Pasdaran appoggiava il sogno laico dell’ex presidente di ridurre l’ingerenza di Khamenei sulle scelte politiche, non per mutare orientamento ma per acquisire più potere.
Fu la fine non solo di Ahmadinejad, che concludeva con due mandati la sua presenza nelle stanze della politica che conta, ma anche di un distacco fra clero tradizionalista e militari. Le due lobby si sono trovate riunite di fronte alla rinnovata sfida innovatrice che riversava i voti sul diplomatico Rohani, anziché su candidati alla Mousavi messi fuorigioco dal peso dell’apparato repressivo. Eppure l’amministrazione Rohani, che non poteva certo gestire la nazione contro i pareri vincolanti della Guida Suprema e dell’organizzazione della forza gestita dalle Guardie della Rivoluzione, non ha raggiunto i risultati favorevoli sperati col clamoroso accordo sul nucleare iraniano. Il terribile embargo che soffoca l’import-export e che doveva cadere dopo quella firma non è mai finito, ha assunto i contorni subdoli delle molteplici difficoltà di transazione attuate dagli organismi mondiali della finanza tutti in mano a quell’Occidente che vuol colpire il regime di Teheran. Quindi, nel maggio 2018, Trump ha riportato la situazione indietro di dieci anni. Eppure il mantra del capitalismo mondiale, del nemico sionista che assedia il Paese della Rivoluzione Islamica non ha più la presa degli anni Ottanta sulla popolazione. O perlomeno sulla gioventù, non importa se urbana o rurale, che si pone in ottica diversa dalla “gioventù del fronte” che difendeva la patria contro l’invasione di Saddam. Sebbene l’apparato militare iraniano continui a difendere gli oppressi sciiti in vari angoli mediorientali, ma a farlo sono fedeli non solo del martire per eccellenza, Hussein, ma di quell’organismo politico, uno Stato nello Stato, che dall’epoca khomeinista detta legge nella vita interna.
Peraltro, come ogni comunità sa, le spese militari pesano sul Pil nazionale e un’economia vacillante, in un Paese con fasce di popolazione prevalentemente giovanile, oggi disoccupata a più del 30%, fa già fatica a tenere in equilibrio bisogni e aspirazioni. Proprio perché assediato da un panorama geopolitico avverso, l’Iran necessiterebbe d’un establishment più favorevole all’ascolto dei suoi tanti volti e non convinto della giustezza di modelli che appartengono al vincente passato, ma non per questo eterni. E’ assolutamente vera, in carne e ossa, quella gente che lamenta un’inflazione che vola al 40% e oltre. E il commercio che ha avuto nei famosi bazari un’arma potente nell’organizzazione prima l’opposizione alla dinastia Pahlavi, poi il sostegno al sistema khomeinista, da questa guerra economica lamenta danni irreparabili. Molti piccoli e medi imprenditori vedono ferme le proprie attività, chi può vola all’estero, ma non è facile per chi non ha prossimità con l’apparato di potere. Del resto i mercanti vicini alle bonyad istituzionali vedono gli affari garantiti da commesse preconfezionate, seppure tarate da tangenti e corruzione. E’ l’altro mercato a soffrire maggiormente e il suo mugugno cresce. Anche tutto l’indotto del turismo, che proprio la distensione dell’accordo sul nucleare del 2015 aveva avviato, risente del clima internazionale e della precarietà socio-politica con cali consistenti. Uno straziante circolo vizioso che porta tanti iraniani a guardare all’estero e svuotare il Paese d’una rivoluzione che, come altre, appare tradita.

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