La speranza e la paura sembrano viaggiare a fianco nel Libano
ribelle. Il primo sentimento è risuonato sin dai primi passi della protesta,
nata per una tassa sulla messaggeria Whatsapp
presa da molti ragazzi come un’usurpazione e per i meno abbienti per uno dei
tanti balzelli del governo Hariri. Quindi giorno dopo giorno, a nord e a sud,
sunniti, maroniti, drusi, sciiti alzavano la voce contro il sistema della
spartizione che accontenta etnìe e partiti, non una larga fetta della
popolazione. Quella che inevitabilmente appartiene all’uno o all’altro fronte,
ma non necessariamente a un clan e dalla stessa militanza - come avviene in
tutto il mondo - osserva come non ci sia parità di vantaggi. Nel tuo stesso
gruppo, nel tuo partito puoi scoprire che c’è chi trascina il carro e chi ci
sta comodamente seduto. Per questo la protesta, nel dolce autunno libanese che
sa di primavera, ha chiesto le dimissioni di Hariri junior e il superamento
della partizione del Paese, col suo meccanismo delle quote che doveva aiutare a
superare gli asti della guerra civile e il liberismo sfrenato di Rafiq Hariri,
sgradito alla parte povera della popolazione. In realtà quest’orientamento non
è mutato, a tal punto da incrementare divari sociali. Certo, le bandiere gialle
di Hezbollah, un tempo nemiche giurate del clan Hariri (tanto da essere
sospettate dell’attentato del 2005 in cui il capostipite venne assassinato),
accrebbero rispetto e peso grazie al contributo alla resistenza armata contro
la seconda invasione di Israele, quindi con ‘la dimostrazione’ del 7 maggio
2008, quando i suoi reparti paramilitari esibirono kalashnikov, squadre e
tattiche di controllo delle maggiori città libanesi, mettendo in crisi lo
stesso esercito e i politici che da quel mondo provengono. Uno di questi è
l’attuale presidente Aoun, ex generale auto esiliatosi per tutti gli anni
Novanta e rientrato in Libano nel caldo 2005. Durante il critico biennio
seguente, già si proponeva come Capo di Stato, ma non avendo appoggi da maroniti
e sunniti guardò al fronte sciita.
Una vicinanza che s’è consolidata nel tempo quando, pur
presente nell’agone politico quale capo del Movimento Patriottico Libero, nel
2016 venne eletto presidente della Repubblica. Fu uno sblocco collettivo cui
contribuì la leadership d’ogni etnìa coi partiti di riferimento. Ora, pur sotto
la storia recente legata a spettri noti: l’ingerenza armata israeliana e
siriana, e quella più subdola di aiuti esterni sauditi e iraniani, indorati da
finanziamenti bancari e missilistici, oltre alla presenza di profughi (non più
solo il quattrocentomila palestinesi, ma i quasi due milioni di siriani) la
vita ordinaria libanese sembra soffocare per la cecità della classe politica. L’ottimismo
di stirpi che ne hanno viste tante chiede a essa, a certi politici di farsi da
parte, di far circolare speranze e progetti nuovi. Ma quel che accade in queste
ore, rinnova visioni “rassicuranti”, cercate da alcuni nell’inneggiare alle
Forze Armate, rimaste peraltro finora lontane da qualsiasi frenesia di
protagonismo e tantomeno di volontà repressiva verso i manifestanti oppure
creare spaccature fra quest’ultimi. Questo l’atteggiamento di chi li pensa
oggetto di speculazioni alimentate dall’esterno, come fa il leader del Partito
di Dio Nasrallah oltre agli alleati del gruppo Amal. Diventano costoro i più rigidi
assertori della conservazione d’un sistema che non va archiviato per non
offrire il fianco ai nemici. E quando com’è accaduto domenica notte a Tiro, le
tende della protesta antigovernativa vengono attaccate e incendiate da
attivisti delle due fazioni che inneggiano a se stessi, alla propria forza, alla
loro egemonia sul Libano di oggi e di domani riappare una regìa settaria che
rischia di risultare controproducente per la popolazione. L’egemonia che
Hezbollah è riuscita a sviluppare sulla scena interna, assai più dei chiusi
orizzonti di Amal, era basata sull’autorevolezza d’un patriottismo unitario,
sull’attenzione all’azione sociale, sulla lungimiranza d’una politica che deve
evitare l’isolamento. Bollare il malcontento popolare come reazionario,
soffiare sul fuoco della polarizzazione non sembra una mossa garantista neppure
per il potere. Può solo riavviare il distruttivo tribalismo politico già conosciuto,
e prestare il fianco a vere ingerenze mai morte.
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