Lo scambio di prigionieri: due professori dell’Università
americana di Kabul sequestrati tempo addietro dai taliban e condotti
probabilmente in Pakistan, in cambio di tre comandanti della rete di Haqqani
(Anas Haqqani, Mali Khan, Hafiz Rashid) detenuti nella prigione di Bagram,
viene presentato da Ashraf Ghani come un passo utile alla “sicurezza del Paese”.
Forse produrrà qualche attentato in meno, ma non è affatto certo. Potrebbe
introdurre, e da una porticina di servizio, il presidente afghano nei colloqui
fra Stati Uniti e talebani. Ma questo avverrà se l’intera Shura di Quetta,
dunque non solo il clan Haqqani, ne accetterà la presenza. Per mesi i turbanti
che, sotto la regìa di Khalilzad, hanno trattato a Doha e a Mosca con
ambasciatori di Trump e Putin e i capi dei rispettivi Servizi, hanno negato al
governo di Kabul presenza e ruolo. Tanto che Ghani s’è attaccato all’unico
percorso di riconoscimento per lui possibile: un’ennesima tornata elettorale.
Non gli è andata malissimo. Il 28 settembre le elezioni si sono tenute, seppure
limitate nella partecipazione (20% di elettori), numero di seggi aperti (2000
reali rispetto ai 5000 dichiarati), classiche accuse di brogli da parte del
concorrente e alter ego alla presidenza Abdullah. In piccolo un remake delle
presidenziali del 2014, allora concluse con l’investitura di entrambi in
cariche distinte: presidente e premier.
Cariche che contano solo nei consessi esterni al Paese, anzi, com’è
accaduto per l’apertura politica statunitense ai talebani, non nei contesti più
significativi che disegnano un domani che abbandona il modello del passato. La
speranza di Ghani, davvero una virtù ultima a morire, di reinserirsi nel
patteggiamento sul futuro afghano assume i toni della ricerca della benevolenza
dei nemici. Un passo da realismo disperato che presuppone l’accettazione del
nuovo assetto istituzionale, atto a riportare un buon pezzo della famiglia
talebana in quella Kabul da cui era stata espulsa dall’invasione statunitense. Nonostante
la narrazione della stampa mainstream non sono mai stati spazzati via dalle 36
province afghane, lo testimonia la tragedia dell’Enduring Freedom, quindi Isaf,
negli ultimi anni Resolute support “missioni
di pace” che non hanno sconfitto i talebani, né hanno formato un esercito
locale. Hanno solo mantenuto la macchina bellica Nato (che ha comunque gettato
al vento l’esistenza di suoi 3.232 militari) con oltre 1000 miliardi di dollari
ufficialmente spesi (secondo fonti alternative la cifra raddoppia). Mentre la
nazione dell’Hindu Kush diventava un enorme cimitero: 140.000 i morti, secondo
le cifre Onu, ovviamente limitate dalla precarietà delle statistiche sul campo.
Quest’esercito di cadaveri conta una buona fetta (50.000) di vittime talebane che
si presentano come resistenti, 30.000 morti fra i militari afghani e almeno 50.000
vittime civili. Su questa necropoli proseguono i balletti di potere e Ghani
cerca di conservare il suo posticino al sole. Un sole grondante di sangue.
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