Irruento e umorale come sa essere, Donald Trump ha bloccato due incontri
segreti da tenere a Camp David. Il primo con una delegazione talebana quindi
col presidente afghano Ghani. Così il via libera alla sedicente pace atteso a
ore, e guarda un po’ a cavallo dell’11 settembre, resta bloccato. Quel che non
riuscivano a fermare le centinaia di vittime di attentati che insanguinano il
cammino della gente comune, lo ferma il decesso d’un soldato statunitense
straziato dall’ultima autobomba del fondamentalismo a Kabul. E’ questo il
motivo ufficiale del blocco trumpiano. Sorpreso anche Ghani, tenuto sempre
lontano dai tavoli dei colloqui per il diktat imposto dai turbanti che
considerano la sua figura un’ingerenza nell’Afghanistan del futuro, mentre la
delegazione talib di Doha ha dato notizia d’un prossimo suo vertice che punta
ad agire non impulsivamente davanti alla mossa del presidente Usa. I negoziatori
della Shura di Quetta forse non sono stupiti affatto, loro hanno continuato a puntare
al caos, imponendo attentati su attentati in tante, troppe province. La
sequenza degli ultimi giorni è stata impressionante: Takhar, Badakhshan, Balkh,
Farah, Herat, Baghlan, Kunduz, Kabul.
Voleva ribadire la
propria supremazia verso chiunque: gli americani
trattanti e gli alleati delle truppe Nato di cui richiedevano il ritiro,
inizialmente integrale poi concordato su cinquemila unità, i miliziani concorrenti
del Khorasan, e pure l’esercito locale giudicato incapace praticamente di
tutto. Agli Stati Uniti stava bene così perché, oltre a mantenere le basi aeree
per controllo e possibili attacchi a obiettivi nemici (che non solo i
jihadisti, ma soprattutto potenze regionali e mondiali), potevano proseguire e
rilanciare l’azione armata dei reparti della propria Intelligence e delle varie
agenzie mercenarie che da anni agiscono su quel terreno. Dovevano ricevere in
cambio la promessa talebana di non fornire basi al terrorismo qaedista, una
promessa tutta da verificare, ma ad accordo concluso vendibilissima in patria
al cospetto dell’elettorato chiamato prossimamente a eleggere il 46° presidente
Usa. La pantomima della “pacificazione” sta andando avanti da un anno e, ora
che il traguardo era prossimo, giunge il colpo di scena. Nel gioco delle parti
questa sospensione può avere lo stesso effetto impresso dai turbanti col loro “dialogo
a suon d’autobomba”.
Trump ama sorprendere, quest’atteggiamento è il suo piatto forte in politica
estera: l’ha usato con Kim, Rouhani e Zarif, col governo cinese nel tira e
molla sui dazi. Ovviamente gli analisti si scatenano per decriptare il suo voltafaccia
che fa più male ai taliban perché azzera un invito in un luogo simbolo per la
diplomazia americana, divenuto celebre nella politica mondiale. Secondo alcuni
commenti il Capo della Casa Bianca avrebbe ceduto al suggerimento di taluni consiglieri
che ritengono fortemente squilibrato l’andamento della trattativa, coi turbanti
da mesi fermi ad esempio nel rifiutarsi di riconoscere valore alle attuali
istituzioni afghane, che sarebbe un’anticamera
per riproporre il loro Emirato. Mentre c’è chi sostiene che Trump sia solo
pratico non etico e non si strappa le vesti per Ghani e il parlamento afghano,
che se accordo ci dovesse essere dovranno subìre assieme l’intero Paese il
ritorno talebano. E alla fine la stoccata del presidente americano sarebbe
null’altro che un colpo di teatro al quale i talebani opporrebbero la ferrea
logica delle motivazioni ultime. Se la “lunga guerra” non ha un vincitore, ha
certamente uno sconfitto: l’invasore. E se quest’ultimo vuol conservare certi
interessi in Asia, l’accordo non potrà essere rinviato all’infinito.
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