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venerdì 27 settembre 2019

L’Egitto che non vuole Sisi


La seconda settimana di protesta anti regime fa più male della prima.  Così il generalissimo, ormai con più estimatori all’estero che in patria, fa arrestare alla vigilia dell’odierno venerdì di mobilitazione circa duemila concittadini, compreso qualche oppositore noto fra quelli che periodicamente sono costretti a fare i pendolari attraverso carceri. L’ultimo vessato è un noto docente di scienze politiche dell’Università del Cairo, Hassan Nafaa, che aveva dichiarato “Non ho dubbi che la continuazione del potere di Sisi ci condurrà al disastro. Nell’interesse dell’Egitto la sua partenza è auspicabile il prima possibile”. Per aver detto questo già mercoledì scorso il professore è finito a far compagnìa in cella a gente come il portavoce dell’ex capo dell’esercito Sami Anan. Quest’ultimo, poi, è a una sorta di arresti domiciliari dal gennaio 2018 quando pensò di sfidare il presidente nella carica dello Capo di Stato. La rielezione col pieno di consensi, superiori al 97% (ma con un’affluenza dichiarata del 41%, secondo parecchi analisti oscillante fra il 25% e il 30%) è stato l’ultimo atto d’amore di quel pezzo d’Egitto che si schierava a favore del colpo di mano anti Fratellanza Musulmana. Oggi anche una parte della non numerosa della classe media inizia a non credere alle due parole d’ordine che hanno rappresentato il fulcro del suo programma: sicurezza nazionale contro il terrorismo (che in alcune zone come il Sinai, ma anella stessa capitale quando vuole, continua a colpire le Forze Armate) e rilancio economico.  
Fatta eccezione per il partenariato con l’italiana Eni sullo sfruttamento del giacimento di gas Zohr che può rendere l’Egitto l’hub mediterraneo del metano, per il turismo, negli ultimi tempi in ripresa anche in base agli occhi chiusi della Comunità internazionale sull’eccezionalità repressiva presente nel Paese arabo, e per le grandi opere pubbliche (il secondo Canale di Suez e la mega capitale a sessanta chilometri dal Cairo) la situazione economica non avvantaggia i ceti subalterni interni. Anzi. Rispetto alla deprecata era Mubarak è stato ristretto quel minimo di ‘stato sociale’ in natura rappresentato dai sussidi per idrocarburi e generi alimentari di prima necessità offerti agli strati più umili. In crescita – in verità non solo in Egitto – sono gli opposti: ricchi e poveri. E nelle ultime settimane a far montare la disillusione su Sisi, si son messe anche le denunce sui social media offerte da un appaltatore dell’esercito, tal Mohamed Ali (non si risenta la memoria dell’omonimo campionissimo di boxe degli anni Sessanta e Settanta). L’attuale Ali è un ex compare di Sisi e del suo apparato, un fornitore di materiale edile che per tutto un periodo s’è arricchito con commesse per le Forze Armate, ovviamente pagando tangenti. Quando il giochino s’è rotto e fra l’imprenditore e il governo si son creati attriti lui è volato in Spagna e da lì spara veleno contro il presidente. Ma come ha affermato un noto oppositore del movimento “6 Aprile” più volte arrestato, la crescita del malcontento non è certo orientata dall’affarista un tempo amico e oggi nemico di Sisi.
Questo soggetto cerca di cavalcare le proteste. Magari i suoi interventi battenti ne ampliano l’eco, eppure l’opposizione oppressa con arresti, torture, sparizioni acquisisce nuovo coraggio per esporsi e sicuramente subirà danni e ulteriori incrudimenti della coercizione. Ma forse vacillanti cominciano a essere le certezze del generale che vede come il progetto d’intimorire la popolazione con assassini e rapimenti non riesce, comunque, ad azzerare il dissenso. E questo nonostante il controllo capillare dei mezzi d’informazione e il bavaglio posto ai social. Quella metà del Paese vicina all’Islam della Brotherhood, silenziata da sei anni, continua a esistere pur senza manifestare, le crepe all’unanimismo di facciata compaiono e il volto scuro del generale golpista all’Assemblea dell’Onu fa il paio con quanto ha dichiarato circa le “forze del male” che affliggono l’Egitto. Un anatema dettato dalla sua paura. Ipotesi neppure tanto peregrina è che fra le stellette cairote si stia valutando se da qui in avanti l’ingombrante figura presidenziale implicata in tanti buchi neri della nazione, comprese le accuse di ruberie per sé e la consorte rivolte dal businessman Ali, diventino un peso di troppo per la lobby militare. Perciò, a garanzia del proprio potere, occorre trovare un altro Sisi, come la consorteria militare fa da circa settant’anni o perlomeno dal momento in cui il “libero ufficiale” Nasser fu meno libero di pensieri e dal terzomondismo finì per proporsi come raìs. Seguìto da altri militari divenuti presidente (Sadat, Mubarak) per nulla carismatici rispetto all’apripista. Insomma la costante delle stellette sulla vita politica egiziana potrebbe pensare di sostituire il capo per salvare il proprio sistema, evitando rivolte di piazza e sanguinarie repressioni.   

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