Erano le prime ore della mattina oggi a Kabul quando in pieno
centro, area di Shah Darak - dov’è il ministero della Difesa oltre a quello
degli Affari Esteri e alcune ambasciate occidentali (Germania, Francia) - è
esploso l’ennesimo camion-bomba. Le strade risultavano già trafficate da auto e
passanti infatti si registrano dieci vittime e una settantina di feriti, fra
cui dieci bambini. Subito dopo la deflagrazione, secondo un copione
consolidato, tre miliziani armati sono penetrati nell’ingresso dell’edificio
governativo ingaggiando un conflitto a fuoco con un reparto dell’esercito
afghano posto a guardia della struttura. Nei dintorni, oltre a palazzine
abitate da militari e agenti dei servizi ci sono sedi di organismi sportivi
come le federazioni afghane di calcio e cricket. Non si sa ancora se
l’attentato sia talebano oppure attribuibile allo Stato Islamico del Khorasan.
Venerdì scorso i taliban avevano colpito compound governativi nel distratto di
Maruf, nel profondo sud del Paese, centocinquanta chilometri a est di Kandahar.
Lì auto-bomba e kamikaze s’erano lanciati contro poliziotti uccidendone 11 e
ferendone 27. Nei prefabbricati si trovavano anche addetti alla Commissione
elettorale (ne sono morti otto) a registrare elettori per le più volte
rimandate elezioni presidenziali: la data è ulteriormente slittata al 28
settembre. Altri attacchi talebani sono stati segnalati anche nelle province
settentrionali. Tutto ciò in concomitanza della riapertura del tavolo dei
“colloqui di pace” a Doha.
S’è avviato infatti il settimo giro di questa giostra senza
fine, e probabilmente senza soluzione, viste le posizioni che da mesi sono
arroccate su alcuni punti che ciascun fronte considera irrinunciabili. Da parte
statunitense fondamentali sono: il cessate il fuoco talebano e il patto di non
concedere basi a forze considerate terroriste, com’era accaduto anni addietro
con Al Qaeda. Da parte talebana: il ritiro di tutte le truppe d’occupazione Nato
e di tutti i soggetti politici che i turbanti considerano fantocci
dell’Occidente. In prima fila l’attuale presidente Ghani al quale s’impone la
lontananza dai colloqui stessi. Perciò quando il segretario di Stato Usa
Pompeo, recentemente in tour a Kabul, dichiara che per l’inizio di settembre
sarà raggiunto un accordo che sancirà la fine del conflitto mente sapendo di
farlo. Soprattutto se nelle sedute ormai ripetitive e stranianti nessuno degli
interlocutori mostrerà di voler cedere qualcosa. I talebani rappresentati a
Doha dal mullah Baradar - che la Cia ha fatto liberare nell’ottobre scorso dal
Pakistan come cenno pacificatore verso gli interlocutori, sperando peraltro che
l’autorità della persona potrà catalizzare i vari clan talebani - hanno accettato
d’incontrare a Mosca addirittura l’ex presidente Karzai e alcuni signori della
guerra da tempo entrati nell’apparato governativo.
Il fine è strappare l’accordo su un governo di
transizione nel quale ci possano essere anche propri rappresentanti. Tutto ciò
in alternativa alla leadership di Ghani, ipotesi che la diplomazia di Khalilzad
suggerita dal Pentagono tiene tuttora in piedi. Khalilzad sostiene che si
procede troppo a rilento, che c’è bisogno di maggior coraggio per attuare uno
stabile processo di pace, facendo intendere che le parti (ma dal suo pulpito,
soprattutto i talebani) devono rinunciare a qualcosa. A questa tattica, ormai
logora, i turbanti stanno rispondendo con gli attentati di cui sopra, e chi
vuol intendere deve cambiare passo, pena il fallimento totale del progetto. Anche
analisti locali ammettono come il governo locale non ha alcuna presa sulla
realtà, resta in balìa dei protettori occidentali che dicono di cercare la
pace, ma non dimostrano di voler smobilitare l’apparato bellico costruito in 18
anni, che più della presenza di 15.000 o 20.000 soldati, gode di nove basi
aeree strategiche, utili per monitorare l’intera regione si riaffacciano
interessi russi e ora anche cinesi. Sulla questione delle basi gli stessi
taliban paiono divisi, fra chi chiuderebbe un occhio in cambio dell’opportunità
di entrare in un governo di coalizione, mentre gli integerrimi dicono no come per le truppe d’occupazione.
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