Come Erdoğan e più di lui, Abdel Fattah al-Sisi il
generale-presidente d’Egitto che cela dietro la grandezza d’un regime basato
sul terrore la sua minuzia di dittatore piccolo piccolo, adotta la linea della
riforma costituzionale per poter conservare il potere per un altro decennio. Il
decreto che rende possibile tale prolungamento è stato approvato ieri da un
Parlamento addomesticato, espressione del voto neppure della metà degli
egiziani. Infatti sin dal golpe del 2013 l’opposizione perseguitata della
Fratellanza Musulmana non è più presente sulla scena politica, e oltre a
registrare morte, sparizione e prigionia dei propri attivisti, vede il suo
elettorato sbandato e astensionista a qualsiasi confronto elettorale proposto
negli ultimi anni. Le stesse elezioni che hanno ratificato la presidenza di
Sisi nel 2014 e 2018, vinte con maggioranze bulgare, hanno avuto un’affluenza
ufficiale del 40%, che a detta di vari osservatori internazionali risulta
gonfiata di parecchi punti. Col 97% di consensi alla sua persona e il pieno di
voti nella Camera dei Rappresentanti che lo sostiene senza rivali, il generale ha
infarcito l’Istituzione di 596 yes men
che ne avallano ogni desiderio. Il più esplicito: restare al potere e così sarà
fino al 2030. A rendere “democratica” una decisione già presa il referendum
consultivo previsto dal 22 al 24 aprile, con cui una consolidata minoranza di
egiziani dirà l’ennesimo sì alla volontà del proprio uomo forte.
“Partecipa,
dì sì agli emendamenti costituzionali” recitano manifesti giganteschi
disposti in ogni angolo della capitale, compresa la piazza un tempo ribelle di
Tahrir, ormai normalizzata a spartitraffico. Passare di lì con un semplice
cartello di protesta assicura fermo e arresto, più eventuali accuse di
terrorismo. E’ attorno al fine di combattere il terrorismo che Sisi reclama un
mandato presidenziale più lungo (sei anni invece degli attuali quattro) e a suo
dire il terrorismo è ovunque, specie in chi si oppone alla satrapìa personale
in linea con la lobby che l’ha espresso, quella delle Forze Armate, anima nera sospesa
sul grande Paese arabo che i militari dicono di proteggere. In realtà
quest’Egitto è ben in linea col piano che ridisegna il Medio Oriente attorno a
un asse reazionario centrato sull’Arabia Saudita, la potenza regionale più funzionale agli
interessi dell’imperialismo economico occidentale - statunitense, britannico o
francese che sia - e vede signorotti della guerra come l’Haftar libico
abbracciati e vezzeggiati da regimi autoritari, appunto l’Egitto di Sisi. In
questo rimpasto mediorientale a perdere sono i ceti deboli di ciascun Paese,
soggiogati o schiacciati da conflitti oppure ridotti all’esilio, come accade da
anni a milioni di siriani oppressi dall’interno e da destabilizzazione esterne.
Poiché, esplicitato da sistemi di governo a vita o mascherato da pseudo
democrazie, il sogno di libertà di quei popoli continua a rimanere un sogno.
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