Il Grande Medio Oriente delle bombe sopravvive e prospera in
faccia a ogni pretesa di pacificazione e controllo. Sia esso il meeting
filoamericano di Varsavia in atto in questi giorni, plasmato in funzione anti
iraniana per convincere i partner europei a sostenere rottura degli accordi sul
nucleare e ripresa dell’embargo. Siano i molteplici tavoli di trattativa fra
statunitensi e talebani per il presente e il futuro in Afghanistan. Di fatto chi
vuol dar fuoco alle polveri, lo fa. Era stata appena battuta la notizia della
sanguinosa deflagrazione contro un reparto di Guardiani della Rivoluzione
iraniani, colpiti nel Baluchistan sul confine pakistano, che giunge la nota di un’altra
strage. A Srunagar, capitale del Kashmir. A farne le spese sempre militari,
stavolta 42 indiani. Il premier conservatore Modi non ha usato mezzi termini,
accusando direttamente il nemico storico, la nazione pakistana, rea perlomeno
di non controllare quel che si muove nel suo territorio. Secondo Modi Islamabad
deve ricevere “una risposta dura che
attui un suo completo isolamento”. E ancora: “Chi ha commesso l’atroce azione pagherà un duro prezzo insieme a chi lo
sostiene”.
In questo caso l’azione
è attribuita al gruppo Jaish-e-Mohammad, formato vent’anni fa da un mujaheddin
che aveva combattuto sotto l’ombrello di al-Qaeda, e che rivendica con
l’esplosivo un distacco del Khashmir dall’India, visto che in quell’area i
musulmani sono la comunità più numerosa. Il nucleo Jaish, su posizioni
fondamentaliste, riceve il sostegno dei talebani afghani che vedono nell’India
un alleato strategico degli Stati Uniti fra i Paesi della regione. Ma lo stesso
Pakistan ha ricevuto attacchi dai miliziani del JeM nella persona di Pervez
Musharraf, in un paio di occasioni l’allora presidente scampò ad attentati
commissionati dai filoterroristi islamisti. Quest’ultimi con la pratica suicida
realizzata da kamikaze riescono a
portare a termine operazioni stragiste in luoghi difficilmente accessibili. Così
è accaduto in questa circostanza nella quale il bus che trasportava i soldati
indiani è stato letteralmente maciullato dall’esplosione. Oggettivamente non è
un segreto che, accanto alla forza del proprio esercito che in una fase storica
impose un proprio generale (Zia-ul Haq) alla guida del Paese, il Pakistan abbia
un’altra componente scaltra, attivissima e cinica impegnata nei giochi loschi
della geopolitica: l’Inter Services Intelligence.
Essa agisce fuori da qualsiasi controllo statale, tanto da ordire
attentati interni e ed esterni, favorire gruppi di pressione o componenti
fondamentaliste come i talebani delle Aree tribali di amministrazione federale
o della Shura di Quetta. Ma tutto ciò accade da decenni e vede i presidenti che
si succedono nello Studio Ovale disinteressarsi di simili comportamenti, oppure
avallarli o censurarli senza che nulla cambi. Il Pakistan può sostituire
premier e capi di Stato, costoro subiscono gli orientamenti tattici dell’Isi
che prende ordini dalla Cia e in certe occasioni fa direttamente di testa sua.
Il pentolone del fondamentalismo jihadista da cui pesca momentanei alleati di
comodo per destabilizzare situazioni regionali, e in certi casi anche interne
nel confronto-scontro con la lobby militare di casa, è noto da tempo. Eppure
nulla cambia. Se stavolta l’India punterà i piedi e cercherà, come promette
Modi, l’isolamento internazionale del nemico giurato pakistano è tutto da
verificare. Le due pretenziose nazioni dell’Asia centrale si muovono in
parallelo fra la tutela statunitense e il richiamo di nuovi numi geopolitici
come la Cina. New Delhi può volere reprimende verso l’ambiguità di Islamabad,
ma in Kashmir corre pericoli ancora più consistenti degli agguati al tritolo di
JeM, visto che ribellioni popolari come quella d’un decennio fa sono sempre
possibili e pericolose.
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