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venerdì 15 febbraio 2019

Strage di militari nel Kashmir: l’India accusa il Pakistan


Il Grande Medio Oriente delle bombe sopravvive e prospera in faccia a ogni pretesa di pacificazione e controllo. Sia esso il meeting filoamericano di Varsavia in atto in questi giorni, plasmato in funzione anti iraniana per convincere i partner europei a sostenere rottura degli accordi sul nucleare e ripresa dell’embargo. Siano i molteplici tavoli di trattativa fra statunitensi e talebani per il presente e il futuro in Afghanistan. Di fatto chi vuol dar fuoco alle polveri, lo fa. Era stata appena battuta la notizia della sanguinosa deflagrazione contro un reparto di Guardiani della Rivoluzione iraniani, colpiti nel Baluchistan sul confine pakistano, che giunge la nota di un’altra strage. A Srunagar, capitale del Kashmir. A farne le spese sempre militari, stavolta 42 indiani. Il premier conservatore Modi non ha usato mezzi termini, accusando direttamente il nemico storico, la nazione pakistana, rea perlomeno di non controllare quel che si muove nel suo territorio. Secondo Modi Islamabad deve ricevere “una risposta dura che attui un suo completo isolamento”. E ancora: “Chi ha commesso l’atroce azione pagherà un duro prezzo insieme a chi lo sostiene”.
In questo caso l’azione è attribuita al gruppo Jaish-e-Mohammad, formato vent’anni fa da un mujaheddin che aveva combattuto sotto l’ombrello di al-Qaeda, e che rivendica con l’esplosivo un distacco del Khashmir dall’India, visto che in quell’area i musulmani sono la comunità più numerosa. Il nucleo Jaish, su posizioni fondamentaliste, riceve il sostegno dei talebani afghani che vedono nell’India un alleato strategico degli Stati Uniti fra i Paesi della regione. Ma lo stesso Pakistan ha ricevuto attacchi dai miliziani del JeM nella persona di Pervez Musharraf, in un paio di occasioni l’allora presidente scampò ad attentati commissionati dai filoterroristi islamisti. Quest’ultimi con la pratica suicida  realizzata da kamikaze riescono a portare a termine operazioni stragiste in luoghi difficilmente accessibili. Così è accaduto in questa circostanza nella quale il bus che trasportava i soldati indiani è stato letteralmente maciullato dall’esplosione. Oggettivamente non è un segreto che, accanto alla forza del proprio esercito che in una fase storica impose un proprio generale (Zia-ul Haq) alla guida del Paese, il Pakistan abbia un’altra componente scaltra, attivissima e cinica impegnata nei giochi loschi della geopolitica: l’Inter Services Intelligence.
Essa agisce fuori da qualsiasi controllo statale, tanto da ordire attentati interni e ed esterni, favorire gruppi di pressione o componenti fondamentaliste come i talebani delle Aree tribali di amministrazione federale o della Shura di Quetta. Ma tutto ciò accade da decenni e vede i presidenti che si succedono nello Studio Ovale disinteressarsi di simili comportamenti, oppure avallarli o censurarli senza che nulla cambi. Il Pakistan può sostituire premier e capi di Stato, costoro subiscono gli orientamenti tattici dell’Isi che prende ordini dalla Cia e in certe occasioni fa direttamente di testa sua. Il pentolone del fondamentalismo jihadista da cui pesca momentanei alleati di comodo per destabilizzare situazioni regionali, e in certi casi anche interne nel confronto-scontro con la lobby militare di casa, è noto da tempo. Eppure nulla cambia. Se stavolta l’India punterà i piedi e cercherà, come promette Modi, l’isolamento internazionale del nemico giurato pakistano è tutto da verificare. Le due pretenziose nazioni dell’Asia centrale si muovono in parallelo fra la tutela statunitense e il richiamo di nuovi numi geopolitici come la Cina. New Delhi può volere reprimende verso l’ambiguità di Islamabad, ma in Kashmir corre pericoli ancora più consistenti degli agguati al tritolo di JeM, visto che ribellioni popolari come quella d’un decennio fa sono sempre possibili e pericolose.

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