La quiete di questi giorni, dopo il mese del terrore (233 vittime solo
di attentati, dal 28 dicembre al 29 gennaio scorsi), non illude nessuno. La
guerra afghana può riprendere come nei peggiori anni dell’occupazione Nato
(2009-2012), quando le truppe anti talebane toccavano il massimo: 110.000
marines, 30.000 contractors, 300.000 soldati dell’Afghan Security Army. Lo
pensano parecchi analisti, lo suppongono oppositori democratici che sentiremo a
breve. Assolutamente improduttivo s’è dimostrato il tentativo di accordo
governativo coi vertici talebani, inefficaci anche i buoni uffici d’un fondamentalista
di vecchia guardia del calibro di Hekmatyar. E’ sembrato che i turbanti
volessero prendere il potere con le armi, come nel 1996. Però, nonostante le attuali
cospicue aree di controllo: Helmand a sud, Nuristan a est, Ghor al centro,
oppure medio-alto: Farah (ovest), Paktika (est), Kunduz (nord) non c’è una
stabilizzazione di un potere talebano. Proprio il caso dell’assedio di Kunduz,
nell’autunno 2015, dimostrò che i guerriglieri potevano assediare e spodestare i
soldati di Ghani, ma di fronte al massiccio intervento dei bombardieri
statunitensi dovevano ritirarsi. Insomma non riuscivano a tenere stabilmente
una grande città.
E’ trascorso più di un anno, fra il 2016 e 2017,
nel tentennìo sui possibili compromessi fra l’attuale governo e l’insorgenza
Talib. Con l’interesse soprattutto della diarchia Ghani-Abdullah a perpetuare una
guida che frutta affari fra i proventi dell’oppio e degli aiuti internazionali,
con la gestione Obama in uscita e quella Trump in entrata a osservare, col
Pentagono in una convinta fase di disimpegno dalla prima linea. Ma le frizioni
e frazioni dei gruppi talebani (la rete di Haqqani oscillante fra colloqui e
scontro aperto, i dissidenti delle aree tribali e del Waziristan e quelli che
hanno assunto la sigla di Stato Islamico del Khorasan, impegnati in una doppia
sfida: attaccare i governativi per strappare agli ex fratelli di kalashnikov il
primato della resistenza armata), mese dopo mese hanno fatto naufragare ogni
prospettiva di rimescolamento della guida della Repubblica Islamica dell’Afghanistan.
Il compromesso in salsa fondamentalista è naufragato, mentre è in atto la
contesa sulla leadership dell’insorgenza, seppure il disegno nazionalista
talebano si distingua da quello dell’Isis afghano sostenitore d’un Califfato
transnazionale. Insomma i talebani, pur pragmatici, sembrano orientati su una
mai rinnegata strategia stragista proprio per non vedersi scavalcati dalla
concorrenza.
E hanno voluto ampliare l’orrore. Delle otto azioni
sanguinarie rivolte prevalentemente contro civili i talib se ne sono attribuite
tre, due delle quali sanguinosissime: 40 vittime all’Hotel Intercontinental,
103 con l’autobomba nel centro di Kabul. Quest’ultima, fra l’altro, era un
mezzo sanitario, dunque normalmente non sospettato. Ma questa guerra nella guerra
per il primato del terrore, non ha più codici, se mai il fondamentalismo se ne
sia dato qualcuno. Certo, i miliziani di Akhunzada considerano nemici tutti
coloro che collaborano con le forze militari d’occupazione, dunque i civili
locali o stranieri impegnati con la Nato, ma anche con la Cooperazione internazionale e
l’amministrazione di Kabul. E non vanno per il sottile. Seppure nei loro tre attentati
del recente mese di fuoco, fra le vittime si contano anche passanti, mercanti e
bambini di strada. La sfida, poi, ha scelto scenari visibili: le città,
Jalalabad e Kandahar, ma soprattutto la capitale così da cercare ampia
risonanza sui media, evidenziare l’inefficienza nel controllo del territorio di
polizia ed esercito locali, incrementare la paura fra la gente. Rinunciando
alle trattative e ponendo la questione della forza come inevitabile, per tutti
anche per se stessi, i talebani mettono a nudo i piani del governo-fantoccio.
E insinuano alla Casa Bianca la tara d’una ripresa del
conflitto in prima linea. La faccenda pone chi sa - Cia e Pentagono - di fronte
a un panorama conosciuto: il rischio di perdite di uomini che, invece, la
guerra dai cieli azzera o attenua moltissimo. Ma pone soprattutto lo Studio
Ovale, e anche il Congresso, davanti a temi vischiosi: alleanze e geostrategie
regionali. Il maggiore tutore della galassia talebana è l’Intelligence
pachistana, che su indicazioni del proprio governo e talvolta per iniziativa
autonoma, fomenta caos per prostrare e ingessare il Paese confinante tenendolo
bloccato. Islamabad è un alleato rissoso e indisciplinato che gli Usa
foraggiano a suon di finanziamenti e armamenti o puniscono tagliando i fondi,
com’è accaduto di recente. Poiché Washington non può abbondonare i siti creati
per osservazione e possibile intervento sul quadrante orientale, sarà costretta
a rimettere i piedi negli scarponi. Calzati da chi è la grande diatriba. C’è
chi prevede di privatizzare in toto l’intervento: l’estate scorsa due impresari
statunitensi della morte, l’ex contractor Erik Prince e il miliardario della
sicurezza Stephen Feinberg, avevano presentato a Trump un piano d’intervento
che aveva indisposto i capi del Pentagono. I generali, da sempre influenti su
qualsiasi presidente, non vogliono perdere un ruolo decisionale sulla guerra.
Che sembra riemergere come unico sbocco per talebani, jihadisti, marines, mercenari.
E per l’eterno business delle armi.
Nessun commento:
Posta un commento