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martedì 10 ottobre 2017

Washington-Ankara: la guerra dei visti


Scontro diplomatico a suon di visti fra Stati Uniti e Turchia, con un uno-due che da domenica (anche se solo ieri le agenzie hanno diffuso la notizia) vede bloccati i permessi d’ingresso fra i due Paesi per turismo, necessità sanitarie, commercio, lavoro e studio. L’Anadolu sostiene che ha iniziato Washington e ne è seguita la risposta di Ankara, nonostante nelle ore precedenti il segretario di Stato Tillerson e il ministro degli Esteri Çavuşoğlu avessero colloquiato al telefono apparentemente senza tensioni. Il fuoco ardeva sotto la cenere. La stampa statunitense rivela ciò che può essere stato il motivo scatenante, stamane confermato anche dal quotidiano istanbuliota Hurriyet: la scorsa settimana un impiegato turco (Metin Topuz) in servizio presso il Consolato americano di Istanbul era stato arrestato perché messo in relazione con un magistrato dimissionario (Zekerya Öz) e quattro agenti indagati nel 2013 per corruzione. Costoro farebbero parte della rete gülenista, l’organizzazione finita da oltre un anno nelle spire dell’inchiesta sul tentato golpe, mentre su Topuz cala il sospetto di spionaggio. Peraltro si teme che anche la moglie e il figlio dell’impiegato siano stati bloccati nella provincia di Amasya, sul Mar Nero. Attualmente le diplomazie stanno trattando e provano a stemperare i toni. Da Kiev, dov’è in visita, è intervenuto lo stesso presidente turco Erdoğan, affermando che questi contrasti rendono tutti molto tristi. Anche da parte americana si manifesta un simile stato d’animo, però finora è assente qualsiasi gesto pacificatore.

Ben oltre le questioni sentimentali sono l’economia e la sicurezza a interessare alle due parti, vicine e alleate più di quanto possa sembrare. Per il dissidio in corso, nel pomeriggio di ieri, la lira turca ha registrato una flessione in molte borse mondiali, col picco di caduta a meno 4% sui mercati asiatici. A seguito dell’anomala situazione anche i rispettivi apparati militari legati dai patti Nato chiedono lumi ai propri governi. I due sanguigni presidenti hanno parecchie grane e non avrebbero motivo per crearne di nuove, alla nazione e a se stessi. In realtà fra gli alleati turchi e americani alcune divergenze trasformatesi in disaccordo esistono da settimane e mesi. Attorno al sostegno offerto da Casa Bianca e Pentagono ai combattenti kurdi in Siria; riguardo al reiterato rifiuto di estradare l’imam Fethullah Gülen (residente in Pennsylvania) che viene additato da Erdoğan come il grande burattinaio del tentato golpe del 15 luglio 2016. E ancora rispetto al cambio di rotta operato negli ultimi mesi dalla Turchia che, sempre nella crisi siriana, sta accettando il punto di vista russo sul probabile futuro del regime di Asad. Quest’ultima tensione diplomatica, inoltre, riapre le diatribe attorno alle svolte autoritarie in corso in Anatolia, alla detenzione di decine di cittadini stranieri accusati di terrorismo, fra costoro ci sono alcuni americani. Altra benzina sul fuoco la versa stamane il premier turco Yıldırım, sostenendo che il suo Paese non necessita del permesso statunitense per trattenere sospettati.

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