Puntano su Kirkuk e, come promesso, lo fanno con
l’artiglieria. L’esercito di Baghdad ha lanciato stanotte la maggiore offensiva
degli ultimi tempi verso la città del petrolio controllata dai kurdi. Secondo
un annuncio del governo lo sta facendo “cooperando
col popolo kurdo e coi peshmerga”, dunque non contro di essi. La realtà
sembra dire altro. Diverse agenzie e l’emittente Al Jazeera informano che i militari e polizia iracheni, assieme
alla milizia sciita al-Shaabi, sono in piena area petrolifera, a pochi
chilometri a sud dal capoluogo della provincia. Anche un dispaccio militare
recapitato alla stampa locale e internazionale annuncia che l’avanzata è in
corso e proseguirà. Mentre circolano voci della presenza di numerosi feriti,
più tragicamente fonti kurde raccontano di abitazioni civili colpite e di
numerose vittime. L’agenzia Reuters,
che ha raccolto sul luogo la dichiarazione d’un comandante iracheno, indica in
una base aerea a est di Kirkuk - denominata K1 - il primo obiettivo che si
prefigge il piano del premier al-Abadi. Fino a due giorni or sono così lui
rispondeva a un portavoce dell’amministrazione di Erbil che l’accusava di voler
usar la forza come pressione politica “L’idea
dell’attacco a Kirkuk era una falsa notizia“. La risposta muscolare attua
le minacce scaturite dopo il referendum del 25 settembre scorso, un voto dal valore
consultivo ma proiettato verso l’indipendenza della regione del Kurdistan.
Questa consultazione, voluta da Masoud Barzani e vinta col 93% dei consensi,
trovava discorde la Casa Bianca, diventata nell’ultimo anno il grande sponsor
politico oltre che l’armiere dei guerriglieri kurdo-iracheni.
Però l’occupazione peshmerga di Kirkuk e dei suoi giacimenti
di idrocarburi, che offrono a chi ne sfrutta e controlla l’estrazione ritorni
economici non indifferenti (8 miliardi annui, con l’estrazione di oltre mezzo
milione di barili al giorno), è considerata dal governo di Baghdad e dalle
componenti alleate un insostenibile smacco. Tanto che al-Abadi ha cercato un
alibi per giustificare l’avanzata delle sue truppe: a suo dire Najmaldin Karim,
governatore della provincia di Kirkuk, avrebbe aperto i confini a un certo
numero guerriglieri del Pkk. Da qui l’attuazione dell’offensiva alla quale, per
ora le forze kurde oppongono una resistenza tattica. Secondo alcune
testimonianze attuano una ritirata verso il centro città, sconveniente sul
fronte militare e su quello delle risorse, non menzionato da parte kurda. Insomma,
secondo Baghdad le manovre con tanto di granate, feriti e, pare, vittime non
vengono considerate uno scontro. Entrambi i contendenti usano forniture
belliche americane: i tank Abrams sono appannaggio degli iracheni, mentre
l’equipaggiamento corazzato di terra kurdo si serve degli Humvee, seppure
questi blindati siano in dotazione anche delle truppe di al-Abadi. Stesse armi,
stesso fornitore e teoricamente protettore, medesimi ‘consiglieri’ strategici e
anche d’Intelligence, di fatto l’amministrazione decisionista Trump usa la medesima
ambiguità e doppiezza dell’attendista Obama. Però nel quadro regionale e di
quella che sarà la sorte della nazione irachena pesano anche i giudizi russi e
iraniani, impegnati sul fronte siriano contro ciò che resta dell’Isis. Di
quest’ultimo nemico parla Washington quando richiama Barzani e al-Abadi per
evitare conflitti armati. Mentre agli occhi delle potenze regionali turca e
iraniana c'è un nemico che continua a restar tale: l’etnìa kurda riottosa e ribelle. Perciò i
terreni di scontro, come i fronti delle alleanze, risultano sempre aggrovigliati.
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