Prova d’intesa e di
forza in queste ore fra i vertici militari e le truppe di Ankara e Teheran.
Mentre i generali Akar e Baqari, rispettivamente capi delle Forze Armate dei
due Paesi s’incontravano nella capitale iraniana, a neppure 200 metri dal
confine della regione autonoma del Kurdistan iniziavano esercitazioni di
“difesa” che impegnavano militari e reparti corazzati con tank e carri. Far
sentire la pressione militare alla popolazione che, pochi giorni fa, ha
espresso a larga maggioranza il desiderio d’indipendenza dall’Iraq è una delle
strategie adottate dalle nazioni che si gemellano in quest’operazione di
politica interna più che internazionale. Sul fronte regionale esse sostengono
l’assoluta necessità di non disgregare l’Iraq, la cui integrità territoriale e
politica verrebbe messa a repentaglio dal referendum kurdo. Di fatto Erdoğan e
Rohani pensano soprattutto alla propria saldezza territoriale e politica contro
cui possono agire i kurdi di casa propria. Da qui il progetto di stabilire sul
tema un agire comune, almeno finché sarà possibile. Turchi e iraniani non
rispondono all’idilliaco quadretto dipinto dal generale Akar durante l’incontro
politico-militare, sono qualcosa di diverso da “Paesi che amichevolmente hanno condiviso per secoli valori comuni”.
Certo, nel disegno di
supremazia regionale che li vede coinvolti assieme ad altre nazioni, cercano di
evitare contrasti diretti, ma, ad esempio, nel conflitto siriano si sono
ritrovati su fronti opposti. Tutt’al più uniti nel combattere l’Isis e il suo
terrorismo stragista che ha colpito entro i confini di entrambi gli Stati.
L’ulteriore comune denominatore è lo scontro con l’etnìa kurda, più acceso
nella parte orientale dell’Anatolia, ma non meno preoccupante per il Paese
degli ayatollah. Lì, dopo articolate vicende avvenute fra gli anni Settanta e
Ottanta, la struttura del Partito democratico del Kurdistan-Iran ha subìto frazionamenti,
perdite di leader a seguito di attentati per ritrovarsi con due micronuclei
(Pdki e Kdpi) dall’andamento incerto, altalenante e ambiguo, ma mai tacitato.
La storia dei tentativi di emancipazione kurda è costellata di accordi e
sostegni anche imbarazzanti. Come quelli ricevuti dal Kdpi all’epoca di Saddam
Hussein in funzione antikhomeinista, a cui si sono aggiunti più recentemente
gli aiuti americani, e pure israeliani, col fine di supportare l’opposizione al
governo di Teheran. Lo scontro ha conosciuto reciproche fasi cruente e i
reparti dell’Intelligence iraniana hanno attuato omicidi mirati di attivisti
kurdi.
L’intricato sviluppo
sembrava più attinente alle missioni segrete che al conflitto politico, seppure
armato. Attualmente ciò che può unire gli interessi turchi e iraniani nel
contrastare la presenza organizzata dei kurdi nelle sue forme e istanze più
varie si chiama Pkk. Il partito di Öcalan dall’epoca dell’arresto del suo
leader ha sviluppato una pratica di scambio e di simbiosi con altre realtà
kurde, in Siria e in Iran stesso, da cui ricava egemonia nell’orientamento
politico, pur rispettando autonomie gestionali come accade nel Rojava. Da simili
rapporti scaturisce anche un reclutamento che risulta vitale nelle fasi in cui
lo scontro, oggi risalito a livelli altissimi, conta morti, feriti, arrestati. Ora
i potenti avversari - gli Stati nazionali turco e iraniano - uniscono le forze.
Lo fanno per la prima volta dal periodo della Rivoluzione Islamica del 1979, a
dimostrazione della delicatezza della fase attraversata dal Medio Oriente, in
lotta fra la conservazione di modelli (imperialisti e para-rivoluzionari) in
alcuni casi fuori dal tempo, e l’involuzione rappresentata dal fondamentalismo
islamico del Daesh. In tale contrapposizione ciò che può rimanere schiacciato è
il desiderio di emancipazione dei kurdi. Nelle forme più varie, dal Kurdistan
al Rojava.
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