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mercoledì 7 giugno 2017

Teheran sotto l'attacco jihadista

Il terrorismo jihadista arriva a Teheran. Quel che non era accaduto si è verificato stamane con un duplice attacco in due luoghi simbolo: il Parlamento e il Mausoleo dell’ayatollah Khomeini. Un commando di tre persone armate di khalashnikov, ha colpito e ucciso una guardia nel palazzo del Majlis. Si registrano alcuni feriti fra militari e funzionari. Gli assalitori tengono in ostaggio un gruppo di persone mentre l’intera area è circondata da polizia e reparti dell’esercito. In contemporanea nella zona sud della capitale, al Mausoleo di Khomeini posto lungo la via dell’aeroporto internazionale, un uomo s’è fatto esplodere senza provocare vittime. Il luogo è di solito frequentatissimo, tre giorni fa ricorreva l’anniversario della morte del padre della Rivoluzione Iraniana e decine di migliaia di cittadini si erano recate nella moschea, un’area dove sorgono anche due hotel e un parco giochi per bambini. Fortunatamente nell’ora mattutina dell’assalto non c’era la solita moltitudine, un lancio dell’agenzia Fars parla, comunque, di alcuni feriti. Sembra che due membri del commando cui apparteneva il kamikaze siano riusciti a fuggire, mentre è stata fermata una donna. Non c’è stata finora alcuna rivendicazione, sebbene stile e finalità degli assalti rientrino nella prassi jihadista.


Il bilancio delle vittime s’appesantisce: sono dieci le guardie del Majlis a essere cadute sotto il fuoco degli assalitori, un fuoco fitto i cui schiocchi sonori sono stati trasmessi da alcuni media. L’attacco in sé era inatteso, nonostante la tensione internazionale cresciuta negli ultimi giorni attorno alla vicenda dello scontro in seno al Consiglio della Cooperazione del Golfo, con le dinastie Saud e Al-Thani ai ferri corti proprio per presunti apprezzamenti pro iraniani dell’emiro qatarino. Attualmente, nonostante l’intera area del Parlamento che sorge in una zona centrale di Teheran sia completamente circondata da militari e reparti speciali di Pasdaran, alcuni dei quali sono nell’edificio istituzionale, quel che resta del commando è ancora asserragliato all’interno e tiene sotto tiro quattro ostaggi. Mentre anche lì un kamikaze s’è fatto esplodere, l’agenzia Reuters ha mostrato due immagini: nella prima uno dei miliziani si affaccia e guarda fuori sempre imbracciando l’Ak 47, nella seconda lo stesso miliziano tiene sotto tiro un uomo che all’esterno recupera un bambino che gli viene porto da una finestra, probabilmente da un altro membro del commando. Un gesto inedito per uomini del terrore. Una nota del Ministero della Sicurezza iraniana ha affermato che stamane gli attacchi previsti nella capitale erano tre: uno è stato preventivamente sventato, pare si trattasse di un paio di autobomba che sono state intercettate.
Gli altri due che sono invece andati a segno. L’Intelligence interna, che come simili strutture nel mondo mostra di non poter filtrare tutto, ha comunque dichiarato di avere bloccato nei mesi scorsi decine di possibili attentati. Dunque il Paese non era affatto tranquillo come sembrava, sebbene da tempo non subisse le attenzioni distruttive del terrorismo. Il maggiore assalto s’era svolto nella zona meridionale del Baluchistan, provincia dove agiscono gruppi talebani, era il 2010 e le vittime furono 39. Poi si ricordano le uccisioni di alcuni scienziati e ingegneri legati al progetto nucleare che subìrono rocambolesche aggressioni con ordigni esplosivi collocati su moto e auto. Si parlò di opera del Mossad o della Cia, certamente il Vevak non mostrò un’efficienza e soprattutto quella prevenzione che una nazione assediata dall’embargo s’aspettava durante la presidenza del basij Ahmadinejad.  Certo l’articolazione degli agguati odierni, che risultano rivendicati dall’Isis, evidenziano un piano d’azione meditato e preparato da tempo. Gli uomini armati che sparano e si fanno saltare in aria non sono lupi solitari bensì elementi addestrati, occorre vedere se combattenti stranieri filtrati dalle aree sensibili, il citato Baluchistan a sud-est o l’area nord-occidentale dove agisce una guerriglia kurda che qui non è organizzata come altrove. Oppure sono soggetti entranti con quel turismo che da un anno a questa parte ha avuto una sensibile ripresa, seppure le maglie dei controlli risultano copiosi e vigili.
Potrebbe addirittura trattarsi di iraniani dissidenti, non tanto coloro che comunque praticano un’opposizione interna e che hanno dato vita a contestazioni non certo armate, ma chi covando odio verso il sistema degli ayatollah presterebbe il fianco a simili disegni. Congetture a parte, che potranno ricevere maggiore chiarezza conoscendo l’identità degli attentatori uccisi e di quelli fermati (finora il Daesh ha sempre armato la mano di sunniti proprio per rafforzare il proprio progetto ideologico d’attacco agli infedeli cristiani e agli eretici sciiti) resta incontrovertibile la realtà di un piano preordinato con riflessi internazionali e interni. Il Paese era appena uscito da una consultazione elettorale accesa e partecipatissima che aveva rafforzato la linea moderata di Rohani e del suo staff in cui il ministro degli Esteri Zarif rappresenta una delle figure di spicco. Questa componente eredita il pragmatismo conosciuto con Rafsanjani, non rompe con la tradizione e il sistema clericale, ma garantisce spazio al laicità in politica e nella società. Tiene in considerazione i mercati e tende a restituire all’economia quella ripresa di cui la nazione necessita, una linea benvista dalla popolazione che ha ridato fiato alla speranza già espressa nel 2013. Eppure i conservatori non mollano.
Pochi giorni fa il dibattito parlamentare ha riproposto le accuse di vaghezza e vacuità della linea internazionale iraniana che gli avvenimenti di questi giorni e di queste ore possono solo incrudire. I falchi del partito dei Pasdaran, che presentavano la candidatura alla presidenza del sindaco uscente di Teheran Qalibaf orientantosi poi per l’appoggio al chierico conservatore Raisi, mirano a rilanciare una linea dura verso gli Stati Uniti. Questi in pochi mesi con Trump hanno rinnegato l’accordo sul nucleare, studiano provocazioni col bando ai musulmani, rilanciano un rapporto privilegiato d’alleanza con l’Arabia Saudita riempiendola con 110 miliardi di armamenti, osservano in silenzio la dinastia amica proporre e ottenere l’isolamento del Qatar che con l’Iran sta accordandosi per lo sfruttamento comune d’un mega bacino di gas sotto le acque del Golfo. L’abbraccio del presidente americano ai sauditi, sancito anche dalla folkloristica danza delle spade, è l’avallo della partecipazione aggressiva a talune crisi mediorientali in corso. La guerra in Yemen, seguìta a quella civile siriana, vede impegnati su fronti opposti e per interposti combattenti Riyad e Teheran. Ciascuno accusa l’altro d’ingerenza, mentre su vari terreni di scontro resta aperto il conflitto etnico-religioso fra sunnismo e sciismo. Sebbene Pasdaran e reparti scelti iraniani siano da anni impegnati in terra siriana, ora un rafforzamento della presenza militare iraniana in aree d’interesse, sostenuta principalmente dai conservatori, può trovare pieno appoggio anche nella maggioranza di governo.
Nessun iraniano è sordo all’idea della difesa nazionale ora che due luoghi simbolo del Paese, che non ha mai perso il senso dello stato d’assedio attuato dall’Occidente, sono stati violati. Perché, come da tempo più voci sottolineano, il disegno autoctono del Califfato è comunque alimentato da forze esterne. Potenze mondiali e locali, oltre ovviamente a Intelligence e reparti dell’addestramento a ogni sorta di guerra. I lupi solitari, il reclutamento di kamikaze che esistono e s’adattano a un filone ben radicato nella stessa lotta di liberazione di popolazioni oppresse, sono solo una delle facce dello scontro in atto che ridisegna il Medioriente e che può durare decenni. Poiché vede nazioni occidentali o orientali divise fra scelte guerrafondaie che producono guadagni diretti e indiretti sui conflitti e chi per impotenza politica e strategica resta a guardare. Un fronte alternativo alla linea dell’aggressione imperialista e del terrore jhadista sembra non esistere, e quello dell’essere vittima si vuole ovviamente evitare. Per disarticolare il secondo, che pare essere tutt’uno col mondo che dice di combatterlo, dovrebbero cadere le teste di tanti demagoghi della democrazia e della libertà che invece governano il mondo. Moderati e riformisti di Teheran oggi si trovano davanti a un bivio: essere schiacciati da nemici esterni o da avversari interni. Scelta che scotta come l’emergenza in corso.

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