Contro il
nazionalismo taliban – Certo, un conto è parlare di liberazione in Afghanistan,
altro è farlo in Pakistan e Iran. Il Paese dell’Hindu Kush ha tuttora il piede
straniero sulla testa, le truppe Nato sono ufficialmente ridotte a 13.000
unità, ma resta sul territorio ancora un numero imprecisato di contractors, dal
2010 molto utilizzati soprattutto nei pattugliamenti e anche in certe operazioni
militari. E soprattutto restano le nove basi aeree ristrutturate e rafforzate
utili per un controllo strategico nel cuore dell’Asia. Contro ogni dichiarazione
di smobilitazione difficilmente gli statunitensi abbandoneranno quelle basi. I
governi fantoccio che si susseguono a Kabul, s’attirano odi di più parti della
popolazione cosicché la propaganda di resistenza può aver vita facile. E potrà
scontrarsi anche col nuovo ruolo dei talebani qualora, una volta inglobati nel
governo, dovessero assumere posizioni di difesa politiche e militari
dell’establishment. Ancora non c’è nulla di tutto ciò, ma i desideri
governativi ambirebbero un simile sbocco per salvare la propria ambigua
esistenza più che le sorti del Paese. Un simile scenario ripeterebbe ciò che è
accaduto con alcuni signori della guerra che, in barba ai pregressi, crimini si
son visti inglobati nelle Istituzioni, entrando come deputati nella Loya Jirga e
addirittura diventando vicepresidenti della Repubblica Islamica. Perciò i
jihadisti lanciano una polemica che prepara lo scontro aperto coi talebani definendoli
“sporchi nazionalisti”, l’attacco si lega direttamente al progetto del Daesh
del Khorasan che interpreterebbe correttamente il fine della lotta islamista.
Internazionalismo
islamico – Il
principio espresso dal sistema politico del Califfato va a rompere i confini degli
stati nazionali creati ad arte dall’imperialismo, prima britannico, francese e
russo poi nord americano nel piccolo e grande Medio Oriente. Stravolge le carte
geografiche stilate dai Sykes-Picot, azzera le linee Durand, rilancia il jihad
contemporaneo nei luoghi dov’esso è rinato coi mujaheddin anti sovietici. Insomma
pensa di creare in questi luoghi quel che Al Baghdadi tenta di fare fra Raqqa e
Mosul. Però destabilizzare due colossi come Pakistan e Iran non è impresa
facile, per la militarizzazione di cui entrambi dispongono, per il reciproco
orientamento di pensare in grande, puntando a un ruolo egemonico regionale.
Ciascuno con una propria storia, con contraddizioni estreme: la forza del
partito combattente iraniano sostenuta dal clero più conservatore che vede i
pasdaran attualmente impegnati nel conflitto siriano, la radicata presenza dell’esercito pakistano in una
nazione di 180 milioni di persone. Creare un Califfato del Khorasan strappando
lembi o ampie aree di territorio a entrambi non pare impresa facile. Ovviamente
si può condurre una campagna di logoramento colpendone la vita civile con
attentati, in Pakistan sta accadendo da tempo, si può condurre una guerriglia
nelle zone dove la tecnologia militare non può essere dispiegata in pieno o con
facilità. L’esempio è quello del Waziristan, dove agiscono i Tahreek, i
talebani dissidenti e anche del Baluchistan. La propaganda dell’Islamic State Khorasan Province pensa a
diffondersi fra uzbeki e tajiki, coinvolgendo due ex stati sovietici con realtà
diverse e instabili. Ne verrebbero coinvolte talune zone dell’una e l’altra
nazione; l’Uzbekistan è ben vasto, e seppure oscillante fra varie satrapie
politiche non ha comunque quella povertà e disoccupazione con cui devono fare i
conti sei milioni di tajiki. Oltre quei confini, in territorio cinese, c’è
l’etnia uigura, undici milioni di musulmani negli ultimi anni fermento contro
il centralismo di Pechino.
Alleanze e
conflitti -
Eppure non è l’elemento socio-economico quello al quale si rivolge la
comunicazione del jihadismo del Khorasan che, anzi, su questioni pratiche come
la coltivazione dell’oppio in Afghanistan (tollerata dai talebani che ci
guadagnano e fanno guadagnare i contadini) hanno lanciato un contrasto
politico-teologico. Il vero Islam vieta quel mercimonio dannoso al fisico e
allo spirito e ciò dimostra la corruzione degli attuali Talib, al pari dei
governanti che vogliono cooptarli, tutti asserviti all’imperialismo. Anche su
temi simili il cerchio si chiude facilmente, percorrendo la via ideologica non
priva di retorica che ogni fondamentalismo diffonde a piene mani. Occorrerà
vedere se le censure rivolte ai “combattenti traditori” e agli “ulama
cortigiani” si tradurranno in conflitto incessante e reiterato, e se la
campagna di reclutamento permetterà all’Iskp d’ingrossare le fila a danno di
talebani ammorbiditi da inserimenti governativi. Bisognerà vedere se e come la
struttura preparerà le nuove leve, finora la propaganda ha mostrato solo
l’alfabetizzazione jihadista di adolescenti. In questa fase solo le trasmigrazioni,
com’è accaduto per alcuni gruppi di taliban dissidenti, assicurano combattenti preparati
e determinati, seppure gli esempi di Siria, Iraq, Libia stanno a dimostrare che
la fase d’avvio della guerriglia può esser nutrita da combattenti stranieri.
Poi servono gli autoctoni. Ma chi proviene dal Pakistan e ancor più dalla
groviera del confine delle Fata può considerarsi di casa oltre il confine
afghano. Comunque si guarda anche ad altre figure: soprattutto ai tanti giovani
abbandonati a se stessi come gli ancora numerosi orfani, spesso frutto dei
“danni collaterali” e in vari casi anche di di quelli prodotti dagli attacchi
degli insorgenti.
Nuovi possibili
focolai -
Può un ragazzo che ha perso i parenti per mano talebana o jihadista sposare un
progetto di guerriglia? Secondo i proclami del Califfato può farlo se è un buon
musulmano e se ha chiaro il ruolo di ciascuna delle forze in campo. Gli viene
proposto un riscatto di fronte a un’esistenza impura e subalterna. Questa
narrazione romantica sulla “missione” da compiere, che si ricollega alla
tradizione dei mujaheddin di quella regione che a fine anni Settanta hanno
iniziato il percorso di ribellione e liberazione, è rivolto alla gente di
villaggi negli ultimi anni non toccati da conflitti, ad esempio nel Khorasan
iraniano. Ma l’invito ad ampliare l’orizzonte, compiendo una rimappatura della
battaglia jihadista e spostandola verso un oriente sempre più vasto può in
alcune aree di confine, se si pensa al Tajikistan, impensierire la stessa Cina
che in Oriente sta di casa e in certo Medio Oriente, come quello afghano, è in
prima fila nella corsa a particolari materie prime con le sue industrie
estrattive (China Metallurgical Group in testa). Il business ha però bisogno di
territori tranquilli e pacificati, e già verso gli attacchi talebani i
diplomatici cinesi hanno manifestato fastidio e preoccupazione al governo di
Kabul. Cooptare guerriglieri tajiki da parte dell’Iskp può essere un progetto
contro cui la Cina ha alzato il suo formidabile antidoto degli affari che si
chiama Shangai Cooperation Organization,
il cartello economico rivolto a varie ex repubbliche sovietiche (il Tajikistan
è fra queste) esteso pure alla Russia. Il tutto per tagliare le gambe al
progetto del terrorismo islamico. Ai teorizzatori del Califfato orientale che
toccano le corde della fede, i grandi colossi rispondono con le tematiche del
mercato. Non dovessero bastare Putin conta sullo sperimentato protocollo
siriano, bisognerà vedere cosa farà Xi Jinping.
(fine)
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