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mercoledì 12 ottobre 2016

Afghanistan, il tempo dei talib

Infilarsi nel colabrodo dei controlli predisposti dall’Afghan National Forces e colpire è diventato una gara aperta fra le componenti del combattentismo afghano. Chi abbia colpito ieri sera la comunità sciita raccolta davanti a una moschea di Kabul (13 vittime e una cinquantina di feriti) è ancora impossibile sapere: manca una rivendicazione e una nota governativa si limita a solidarizzare coi familiari delle vittime e stigmatizzare l’ennesimo attacco mortale. Non è, però, in grado di evitare spargimenti di sangue. Anzi, una voce dell’Intelligence interna rivela all’emittente Tolo tv che si temono nuovi attentati per le celebrazioni dell’Ashura (la festa sciita in cui si ricorda la morte di Hussein, nipote del profeta). In contraddizione con questi timori non si comprende perché ieri, in occasione dell’arrivo di centinaia di fedeli, la moschea in altre occasioni presidiatissima risultasse poco vigilata. Lo sostenevano ai microfoni della tivù afghana alcuni feriti. L’ipotesi che nelle file del fondamentalismo sunnita ci sia chi vuole innescare un conflitto religioso con la minoranza hazara (di fede sciita) era stata già avanzata nella scorsa estate in occasione della strage (oltre ottanta vittime) che aveva colpito questa comunità riunita in corteo per le vie della capitale.
Se si tratti di talebani dissidenti che si sono avvicinati all’Isis oppure di quel fondamentalismo deobandi, comunque presenta fra alcuni clan taliban, non è tuttora chiaro. Sebbene negli scossoni, non senza conflittualità, che hanno attraversato quella galassia negli ultimi diciotto mesi per rimpiazzare alla guida il defunto mullah Omar, anche gli irriducibili della rete di Haqqani s’erano accordati coi mullah di Quetta per una strategia unitaria. E questa da tempo non prevede fratture etniche né religiose. Certo, gli hazara sono sempre trattati come paria dai gruppi tribali pashtun, ma un’offensiva interna mirata contro gli sciiti non era all’ordine del giorno. Almeno finora. Indiziati i guerriglieri irriducibili Tehreek-e Taliban, schierati col disegno del Daesh e sostenuti dell’Isi pakistana. Oppure, facendo un’escursione nel passato, qualche miliziano di Hekmatyar, lo storico massacratore di hazara all’epoca della guerra civile interna. Ma quest’ultima è un’ipotesi poco credibile. Hekmatyar ha appena firmato un patto col governo d’Unità Nazionale, s’appresta a essere un interlocutore dei talebani disposti al dialogo con Ghani così da finire imbarcati in un governone aperto a tutti: amministratori filo occidentali, signori della guerra più o meno fondamentalisti, talebani. “Se non puoi battere il nemico, fattelo amico” sentenzia uno storico motto.
E citando un’altra frase celebre della guerra infinita, nata sulle montagne dell’Hindu Kush e continuata nelle valli, pianure e città afghane: “Gli americani hanno il controllo dell’ora, i talebani quello del tempo”. Un elemento sul quale lo stesso Pentagono ha molto ragionato nell’ultimo biennio tanto da spingere sulle stesse resistenze del mondo politico statunitense, democratico o repubblicano, a uscire dall’avventura afghana, giudicata assolutamente fallimentare. La linea incarnata dal segretario di Stato Kerry ha molto battuto sulla favola di un’amministrazione autoctona pur legata a personaggi ampiamente pilotati. E’ la coppia Ghani-Abdullah, peraltro in connubio forzato onde evitare conflitti fra le etnie e i clan tribali che sostenevano l’uno contro l’altro. Sfiorato il conflitto interno il Paese naviga a vista da due anni. Continua a essere afflitto da burocrati inefficienti e corrotti, a sperperare il denaro degli aiuti internazionali che finisce nelle solite mani di potentati, a subire attacchi sempre più smaccati dai resistenti che, piano estremo, vengono convocati al tavolo delle trattative ma non è detto che ci si siedano. I Talib chiedono di più, alcuni di loro pensano di poter avere carta bianca come nel 1996 e rilanciare l’Emirato. Poiché si ritengono gli unici in grado di poterlo attuare su un territorio che per buona parte è la propria casa, le Fata, e perché hanno messo radici anche lì dove gli antichi warlord sono originari.

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