Fra le mani più potenti del mondo strette da
Recep Tayyip Erdoğan ieri al vertice del G20 a Hangzhou, in Cina, quelle del
padrone di casa Xi Jinping, di Putin, della Merkel erano le maggiormente
ricercate dal presidente turco. Il rilancio politico per una Turchia squassata
da attentati, emergenza profughi, tentato golpe, crisi siriana, instabilità
interna che mina la stessa tenuta economica del Paese, trova nei leader cinese,
russo e tedesca partner utili per un presente diventato incerto per Ankara. Il
suo attuale uomo del destino nella gestione del potere è capace di creare
aperture e repentine chiusure per una gestione ipersonalistica e focosa nei
rapporti anche coi grandi della terra. Quindi prova a recuperare. Da Pechino
potrà ricevere impulsi finanziari che sono l’essenza della politica estera
cinese; dalla recente distensione con Mosca ricava un’altra via praticabile
nella regione mediorientale da giocarsi in alternativa ai ‘consigli’
statunitensi, seppure l’intricato nodo da sciogliere resta il presente-futuro
della frantumata Siria. Mentre alla premier berlinese, che sulla questione dei
rifugiati si gioca nel 2017 il rinnovo della leadership in urne diventate
sempre più calde per la Cdu, Erdoğan sa di poter fornire quell’aiuto senza il
quale tre e più milioni di siriani, per ora trattenuti sul proprio territorio,
farebbero saltare tutti i già labili equilibri in un’Europa pervasa dal
populismo xenofobo. Eppure ieri un’altra stretta di mano e un altro faccia a
faccia ha impegnato il sultano: quello col potentato per eccellenza seppure
ormai a fine mandato.
Erdoğan e Obama si sono osservati e parlati,
trattando tutto il non detto dei circa cinquanta giorni trascorsi dal tentato
golpe dei Fetö, i fedelissimi che in divisa o in borghese, secondo le accuse aderivano
al piano sovversivo del movimento Hizmet. Nelle concitate ore del tentato di
colpo di mano, Casa Bianca e Pentagono, stettero a guardare, seppure fosse
sotto tiro la leadership d’un alleato di primo piano sul fronte Nato.
Comportamento che nelle file dell’Akp ha fatto sorgere il sospetto di
un’acquiescenza statunitense al tentativo eversivo. In realtà Washington e
tante capitali d’Occidente, sono restate silenziose spettatrici di quelle ore -
comportamento che il presidente turco gli ha più volte rinfacciato - come hanno
taciuto sul copioso repulisti attuato dalle Istituzioni turche fra militari,
magistrati, amministratori, burocrati grandi e piccoli, insegnanti, fino ai
sempre vituperati e repressi comunicatori di carta stampata ed emittenti
radiotelevisive. Novantamila fra licenziamenti e rimozioni, trentamila arresti,
non solo ovviamente fra presunti gülenisti, con cifre che fluttuano, aumentando
settimana dopo settimana in un’avanzata repressiva senza pari. Ma l’accusa è
implacabile: traditori della Repubblica, e il crescendo ancor più terribile:
terroristi alla stregua dei miliziani dell’Isis e degli odiati militanti del
Pkk. Nel dialogo, parzialmente a freddo, ripreso ieri il presidente turco ha
ripetuto il mantra sollevato da cinquanta giorni: gli Stati Uniti ospitano da
circa vent’anni l’uomo che ora attenta alla sicurezza di una nazione dalla
quale s’è spontaneamente allontanato e nella quale ha stabilito un business
(nei servizi con la sua Confraternita) e un controllo immensi. L’imam Fethullah
Gülen ha da tempo tessuto una rete di adesioni in ogni ganglio dello Stato.
Grazie a essa sono possibili azioni come quella del 15 luglio scorso che destabilizzano
la Turchia. Quest’uomo va estradato e processato nel proprio Paese, chiede
Erdoğan.
Eppure anche ieri Obama, col fair play che lo
caratterizza, ha sorriso e parzialmente eluso la questione. Ha promesso che le
Istituzioni americane potrebbero intraprendere un simile percorso solo a fronte
di dettagliati dossier con tanto di prove che tuttora mancano, poiché verso l’imprenditore
accasato in Pennsylvania si lanciano solo invettive. Comunque il Dipartimento
di Giustizia statunitense ha inviato in terra turca dei funzionari impegnati in
investigazioni. A rendere più perentoria la richiesta erdoğaniana c’è anche il
sostegno dell’opposizione politica interna (repubblicana e nazionalista), entrambe
criticano certi metodi repressivi del presidente ma concordano con lui sul
dover stroncare ogni pericolo di eversione. Lo ribadisce in un’odierna intervista
a Hürriyet il parlamentare socialdemocratico
Oğuz Kaan Salıcı. Sul tavolo cinese le mani semitese fra i due alleati Nato si
sono trovate a compiere un’altra flebile stretta di mano sulla guerriglia kurda
impegnata nel conflitto anti Isis. Non è un segreto che negli ultimi mesi ‘consiglieri’
americani abbiano elargito armi non solo ai peshmerga di Barzani sul fronte
orientale, ma alle stesse Unità di protezione del popolo, attive nel difendere
le terre del Rojava e riprendere località occupate dal Daesh. La cosa non piace
ad Ankara e la recente liberatoria internazionale ricevuta dal suo esercito ha
prodotto attacchi di terra e di cielo non solo contro i miliziani neri, ma sulle
teste degli stessi guerriglieri kurdo-siriani. E’ l’ennesimo ostacolo per una
comprensione, e la stretta di mano resta di circostanza.
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