Il presidente afghano Ghani incontra il premier
indiano Modi, gli stringe ardentemente la mano e incamera con l’altra un
miliardo di dollari. Modi afferma al contempo che l’India s’impegnerà a
garantire unità, sovranità, pace, stabilità e prosperità all’Afghanistan. Tutte
speranze e dichiarazioni d’intenti perché questa nazione è frammentata,
asservita, combattuta, instabile e povera. I due statisti lo sanno, ma i giochi
di politica estera si riempiono di falsità per concludere accordi di comodo. In
questo caso il pericolo fondamentale è la galassia talebana, fortemente
rafforzata e sostenuta da un nemico comune: il Pakistan. Ovviamente in maniera
celata, perché ufficialmente con l’ingombrante vicino Ghani ha stretto mani e altri
accordi proprio un anno fa, che evidentemente sono serviti a poco. La
componente talebana dissidente dei Tehreek-e Taliban ha colpito sul versante
afghano e pakistano, ma sono i clan ortodossi che dal settembre 2015 hanno
stretto d’assedio il governo di Kabul a rappresentare il pericolo maggiore per
la vacillante amministrazione afghana sorretta dalla Casa Bianca. La mancanza
di sicurezza in tante sue province costituisce uno dei talloni d’Achille della
gestione Ghani, da cui lo stesso premier de facto Abdullah vorrebbe sganciarsi.
Gli altri sono la mancanza di risorse,
nonostante gli aiuti internazionali, perché la corruzione governativa,
infarcita di esponenti dei clan tribali inseriti nelle Istituzioni, i falsi
imprenditori-signori della guerra succhiano per sé ogni avere e prestito. C’è
da chiedersi dove finirà anche il miliardo indiano. Modi nell’allungare una
mano così copiosa indica un utilizzo per uno sviluppo primario,
dall’agricoltura ai servizi per sanità ed educazione. Sic! Promesse e proposte
che vari “benefattori” lanciano e che poi vedono i fiumi di denaro disperdersi
in rivoli incontrollati. Il presidente indiano ha parlato anche
d’infrastrutture - le grandi assenti dalla cruda realtà afghana - riguardo
all’energia, rivolta anche al solare, e magari pensa di proporre i prototipi
predisposti dai propri ingegneri. Ha fatto riferimento agli iniziali accordi,
datati 2012, che miravano a sfruttare il porto di Chābahār, situato nella
regione iraniana del Sistan, sulla costa del Makran che s’affaccia sul golfo
dell’Oman. Secondo quel primo patto, stilato fra India, Afghanistan, Iran,
quest’ultimo governo prometteva d’investire 25 miliardi di dollari per
trasformare Chābahār in un enorme centro energetico regionale. Poi tutto si
fermò, c’era anche la promessa di Teheran di costruire un grosso impianto per
connettere Chābahār col porto pakistano di Gwadar.
Su questo fronte gli interessi economici fanno
sempre i conti con quelli geostrategici che vedono in perenne rivalità iraniani
e pakistani per la supremazia nell’area, mentre indiani e cinesi si contendono
il grande business asiatico. L’Afghanistan è solo un vaso di coccio che sembra
essere sempre riempito da accordi e alleanze, ma viene continuamente svuotato
da quel che riceve e che possiede, ad esempio nel sottosuolo. Bisogna vedere
come finirà con quest’ennesima iniezione di fiducia a base di dollari e,
parlando d’assetto economico rivolto alla sicurezza, certi segnali potrebbero
comparire nella Conferenza di Bruxelles del prossimo 5 ottobre e nel successivo
4 dicembre, in cui si rinnova l’incontro di Heart
of Asia-Istanbul Process che ha già avuto passaggi a Islamabad e Pechino. Sono
coinvolte quattordici nazioni, potenze mondiali come Russia, Cina e India, regionali
(Iran, Pakistan Turchia, Arabia Saudita), alleati di comodo e di peso,
soprattutto energetico (Emirati Arabi, Kazakhistan, Azerbaijan, Turkmenistan).
A tutte interesserebbe la stabilità, ma in molte albergano contraddizioni che
alimentano l’insicurezza nel cuore del Medio Oriente, vicino e lontano.
L’Afghanistan è l’unico a mostrare tutti suoi nei e le sue piaghe e sicuramente
a subìrne ulteriori conseguenze.
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