Se Erdoğan abbia più nemici o sostenitori il
tentato golpe di stanotte lo mostra chiaramente. I primi ci sono all’interno e
all’esterno, ma c’è anche un popolo, un gran pezzo di popolo che sostiene e
difende l’Atatürk islamico. Probabilmente pensando di difendere la patria e di
fatto difendendo se stessi da torbide manovre di altrettanto ambigui ufficiali
in divisa. Generazioni di turchi hanno conosciuto un passato fatto di
coprifuoco e leggi marziali, tortura, galera, uccisioni; li ha usati lo stesso
Erdoğan nei territori del sud-est dove da mesi è ripresa la campagna anti
kurda. Li ha introdotti nelle moderne città dove apre fantasmagorici ponti sul
Bosforo e chiude emittenti televisive trascinando dietro le sbarre giornalisti
scomodi. Ma tutto questo stanotte sembrava in disparte, perché nelle ore che si
sono succedute nell’incertezza e nella concitazione, coi carri armati in
strada, spari, tivù di Stato occupata dagli elmetti, caccia che volavano
minacciosi sulla capitale e sulle maggiori città, scontri armati fra militari
golpisti e forze di polizia fedeli, migliaia di uomini a mani nude sono scesi
per via a vedere e fare qualcosa e sono stati al fianco del dittatore eletto
nell’urna. Cittadini, dunque, capaci non solo di sostenerlo col voto, volitivi
che rischiano di farsi uccidere per un capo. E’ un segnale che non cambia la
natura del sultano, lo mostra come sono gli autocrati tuttora in sella.
E il pensiero non può non andare all’avversario
vicino di casa che resiste da anni a una guerra civile e incivile, quel Bashar
Asad presidente insanguinato, che egualmente ha un pezzo di popolo al fianco e
lotta con lui e per lui. E’ il tratto tragicamente essenziale che la politica
mondiale perora blaterando di democrazia mentre attua solo forzature della
forza con arroccamenti, uomini unici e popoli usati e massacrati, resi profughi
e vittime. Però nelle strade s’è vista gente che non temeva l’ufficiale che
mitragliava in aria, sostenitori del presidente o forse anche suoi oppositori
avversi però ai militari, s’è visto chi sollevava le braccia quasi fosse un
imam e chi con le mani faceva il tragico simbolo dei Lupi grigi, si son visti
militari tutt’altro che decisi e desiderosi di spargere sangue. Opposti in quel
momento, e forse accomunati da vincoli di tradizione kemalista e islamista. Chi
siano i golpisti è il busillis da sciogliere, sono stati arrestati centinaia di
ribelli (oltre 1.500), segnale che nessuna Energekon, appare risolutiva. Il
corpaccione militare, il più robusto della Nato europea-occidentale, è una
lobby che non vuole perdere privilegi e voglia di contare. Negli anni scorsi i
conflitti col premier ora presidente hanno creato in tanti generali e ammiragli
bocconi amari difficili da ingoiare.
Eppure parecchi di loro hanno abbandonato i
vincoli più stretti col passato e si sono aperti al nuovo corso del partito
islamico. Una fetta delle stellette è poi vicina all’eminenza grigia
dell’islamismo turco emigrato negli Usa con Fethullah Gülen e su costoro
s’incentrano i sospetti del tentativo di putsch, perché Gülen ed Erdoğan, una
volta sodali, da tempo si scontrano e si combattono attraverso i rispettivi
baluardi economico e politico. Della notte buia di un colpo sperato più che
portato resta di fatto un rafforzamento del presidente stesso, tanto che
qualche dietrologo già si lancia a ipotizzare nei fatti una regia di regime,
certo è che il sultano incassa sostegno su vari terreni. Politico: grazie a un
popolo in strada a difenderlo, internazionale con alleati come Angela Merkel
che inizialmente sembrano respingerlo (la Cancelliera in un ipotizzato volo del
politico turco verso Berlino) per poi ribadire insieme a Obama la legittimità
presidenziale. Tattico con avversari dei partiti repubblicano (Chp) e nazionalista
(Mhp) che in Parlamento si sono pronunciati contro i golpisti. Infine di
sicurezza, visto che polizia, agenti del Mıt gli son stati fedeli, contro ogni
carro armato. Il pezzo della Turchia democratica, della comunità kurda che
soffre per le smanie di potere erdoğaniane se le trovano accresciute. Ma non
erano certo i putschisti gli amici di libertà, democrazia, giustizia,
autodeterminazione dei popoli che continuano a essere i grandi prigionieri
dell’attuale Turchia.
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