Era la via, anzi la passeggiata, d’un welfare ante
litteram. Sette chilometri di strada, dal porto verso ovest, a costeggiare il
golfo naturale d’una città solare, comunque mediterranea. Una passeggiata fatta
costruire per dar lavoro e far mangiare la gente del posto senz’occupazione
costretta a mendicare. Un reverendo inglese, soldi britannici, così nacque
Promenade des Anglais, diventata simbolo di villeggiatura in un mondo che già
trent’anni dopo la Rivoluzione borghese pensava molto alla bella vita e poco al
popolo. Se ne serviva offrendogli poco più che elemosine. Ieri la guerra delle
civiltà è piombata su due dei sette chilometri di quel percorso a cento
all’ora. Bianca e spettrale come in un film di Spielberg. A guidare quel camion
sulla folla raccolta a Nizza per la pirotecnìa finale della festa più laica che
l’Europa crociata riesce a produrre, c’era un tunisino che era anche francese.
Trentun’anni, pochissimi per aver visto il colonialismo veterano, ma abbastanza
per sapere tutto sul colonialismo di ritorno di cui il Maghreb è cosparso. Ma,
probabilmente, la sua storia è un’altra. Sta nella battaglia avviata due anni
or sono dalla nuova sigla del Jihad mondiale, quella dell’Isis, che ripercorre
e rivaleggia con altri network della guerra santa islamista, ciò che resta di
Qaeda.
E se fino a poche settimane fa il Daesh si dava
obiettivi diversificati, costruendo il proprio Stato sui rottami esistenti o
voluti di altre nazioni, per compensare la controffensiva che subisce in quelle
terre lancia i suoi camion assassini, i kamikaze esplosivi, gli assalti dei
cecchini e dei bombaroli di strada nel cuore dell’Europa considerata nemica. In
realtà li lancia anche altrove, nel vicino e lontano Oriente. Ma lo shock che
subiamo è assoluto come la nostra autoreferenzialità e naturalmente restiamo
colpiti più da Parigi e Bruxelles che da Lahore e finanche da Istanbul. Ogni
comunità che si raccoglie attorno alle proprie carni straziate e piange i suoi
morti, pensa e prova a difendersi da una guerra imposta, per giunta in casa. Ma
sembra che una simile guerra potrà durare a lungo se non costruiscono anticorpi
fra chi vuole uccidere nel nome dell’Islam e chi vuol tornare a un passato
esclusivamente revanscista. Sono ancora pochi a interrogarsi sul perché la
società multietnica delle splendenti metropoli laiche della vecchia Europa non
funziona. Eppure le nuove periferie parigine non sono più le Belleville di Pennac
e neppure le Ménilmontant colorate. Sono le banlieue oltre la Defence.
Allo stesso modo le Tunisi, le Algeri, le
Casablanca, vantate come pacificazione con un colonialismo che fu, hanno
risposto agli interessi clanisti, dai Bourghiba a Ben Ali, agli smarrimenti dei
Ben Bella finiti nei camalentismi di Bouteflika, nelle imperiture monarchie in
affari con le tante Veolia nordafricane. E’ solo una parte del discorso, che
non salva né giustifica il piano distruttivo dell’Islam armato, lanciato contro
ogni occidentale visto come aggressore. Poiché è anche l’altro Islam che
dovrebbe e deve combattere il suo nemico interiore. Però da noi c’è chi
sostiene che quest’Islam non esiste, né può esistere, c’è chi vuole il
fondamentalismo per scontrarsi con esso e non solo tramite le belle lettere di
Houellebecq. Ma opponendo ai kalashikov jihadisti le armi delle sue industrie
di guerra, incentivando un Far west che non sa controllare. Proprio come negli
States, proprio come all’aeroporto di Bruxelles. Così c’è chi già, in una
società agonizzante in assedio, propone la sua via d’uscita: se non è possibile
l’integrazione (finora intesa come accettazione a senso unico anziché
condivisione fra culture), ben venga l’apartheid. E porta come esempio da
seguire il più problematico fra gli Stati del mondo: Israele. Se si vuol
continuare a non capire e morire anzitempo, scegliamo pure il modello dello
Stato-soldato. E Amen.
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