Sembra
non farcela la lista della società civile “Beyrouth Madinati” contro il listone
delle famiglie “Les Beyrouthins“ che si sono strette assieme (Hariri jr, Geagea,
il generale Aoun) per vincere elezioni amministrative libanesi ferme al 2010,
in una nazione con un Parlamento bloccato al 2009 e da due anni senza
presidente. I primi indizi del voto di domenica, che riguardano la capitale e
il distretto orientale nella Béqaa, vedono in vantaggio la lista dei
professionisti della politica. Per quanto il dato più evidente risulta
l’astensionismo (i votanti superano di poco il 20% degli elettori che sono meno
di mezzo milione); più alta la percentuale nella Békaa (45%). Ma quel che si
temeva sta accadendo: il disamore dei cittadini nei confronti di un ceto
immobile, inefficiente e anche corrotto contro il quale si lancia un segnale di
aperto dissenso disertando dalle urne. Un pezzo della società - di
professionisti e per dirla con le dichiarazioni della regista Nadine Labaki di
“coloro che amano Beirut e che piangono
per lei” - s’è riunita nella lista “Beyrouth Madinati”, trovando la
vicinanza di molti giovani che cercano il futuro fuori da quella ‘Corrente per
il Futuro’ del clan Hariri. Il gruppo che negli anni passati ha caratterizzato l’arrivo
del rampollo Saad, impegnatosi pubblicamente dopo l’assassinio del padre Rafiq,
e ne ha seguìto le orme favorevoli al capitalismo filo occidentale interno al
Paese. Il suo braccio di ferro con il Partito di Dio di Nasrallah è stato
acceso, rimarcato dalla spartizione della sfera pubblica col ceppo cristiano-maronita
e coi suoi esponenti. Sino ai singulti della crisi siriana che sulla frontiera
occidentale ha in più occasioni tenuto l’esercito locale in allerta e ha visto
passaggi, più o meno occulti, di miliziani diretti oltre cortina, ovviamente su
sponde opposte: jihadisti e foreign fighters da una parte, Hezbollah e pasdaran
dall’altra.
Le
contraddizioni di una società uscita dal quindicennio della sanguinosissima
guerra civile di metà anni Settanta, minata dagli attacchi all’unità nazionale
sempre temuti dal vicino Stato di Israele, affannata dalla gestione di mezzo
milione di palestinesi nei campi profughi, cui s’è aggiunto il milione e mezzo
di rifugiati siriani, con stime approssimative perché, nonostante una sorta di
blocco dissuasivo, dal confine orientale sono continuati e continuano a
transitare famiglie disperate, pesano sull’equilibrio nazionale. Tant’è che un
anno fa si era pubblicamente discusso su come riuscire ad aiutare chi ha
bisogno senza stravolgere l’andamento di vita degli abitanti della grande
Beirut che - al di là della città vetrina tutta banche e centri di commercio
incentivati dai petrodollari sauditi - di problemi ne ha parecchi. S’è visto
mesi addietro con la rivolta della popolazione nauseata dagli afrori
dell’emergenza rifiuti che aveva innescato un pericolo sanitario. Ma le nausee
verso la politica appaiono ancor più insopportabili se gli elettori si tengono così
distanti dai seggi. Non ne possono più
del castello di carte che conserva il suo precario equilibrio sulla divisione
confessionale dei poteri in quelle Istituzionali che non trovano una
rigenerazione e, secondo i contestatori, non provano neppure a cercarla. Perciò
la lista civica sembrava riuscire a scuotere l’immobilismo, sembra non sia
bastata. Al di là del seguito ricevuto in alcune aree ad alta concentrazione
sciita diversi cittadini non hanno sposato il rifiuto alle liste indicato dal
proprio Partito. Si sono recati ai seggi scegliendo appunto gli outsider di
“Beyrouth Madinati”, optando per una rottura degli schemi. Un tentativo per
arginare il cammino di un avversario consolidato come Hariri per una partita
che, pur a basso impatto di partecipazione, resta aperta.
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