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lunedì 9 maggio 2016

Libano, il rifiuto della vecchia politica

Sembra non farcela la lista della società civile “Beyrouth Madinati” contro il listone delle famiglie “Les Beyrouthins“ che si sono strette assieme (Hariri jr, Geagea, il generale Aoun) per vincere elezioni amministrative libanesi ferme al 2010, in una nazione con un Parlamento bloccato al 2009 e da due anni senza presidente. I primi indizi del voto di domenica, che riguardano la capitale e il distretto orientale nella Béqaa, vedono in vantaggio la lista dei professionisti della politica. Per quanto il dato più evidente risulta l’astensionismo (i votanti superano di poco il 20% degli elettori che sono meno di mezzo milione); più alta la percentuale nella Békaa (45%). Ma quel che si temeva sta accadendo: il disamore dei cittadini nei confronti di un ceto immobile, inefficiente e anche corrotto contro il quale si lancia un segnale di aperto dissenso disertando dalle urne. Un pezzo della società - di professionisti e per dirla con le dichiarazioni della regista Nadine Labaki di “coloro che amano Beirut e che piangono per lei” - s’è riunita nella lista “Beyrouth Madinati”, trovando la vicinanza di molti giovani che cercano il futuro fuori da quella ‘Corrente per il Futuro’ del clan Hariri. Il gruppo che negli anni passati ha caratterizzato l’arrivo del rampollo Saad, impegnatosi pubblicamente dopo l’assassinio del padre Rafiq, e ne ha seguìto le orme favorevoli al capitalismo filo occidentale interno al Paese. Il suo braccio di ferro con il Partito di Dio di Nasrallah è stato acceso, rimarcato dalla spartizione della sfera pubblica col ceppo cristiano-maronita e coi suoi esponenti. Sino ai singulti della crisi siriana che sulla frontiera occidentale ha in più occasioni tenuto l’esercito locale in allerta e ha visto passaggi, più o meno occulti, di miliziani diretti oltre cortina, ovviamente su sponde opposte: jihadisti e foreign fighters da una parte, Hezbollah e pasdaran dall’altra.

Le contraddizioni di una società uscita dal quindicennio della sanguinosissima guerra civile di metà anni Settanta, minata dagli attacchi all’unità nazionale sempre temuti dal vicino Stato di Israele, affannata dalla gestione di mezzo milione di palestinesi nei campi profughi, cui s’è aggiunto il milione e mezzo di rifugiati siriani, con stime approssimative perché, nonostante una sorta di blocco dissuasivo, dal confine orientale sono continuati e continuano a transitare famiglie disperate, pesano sull’equilibrio nazionale. Tant’è che un anno fa si era pubblicamente discusso su come riuscire ad aiutare chi ha bisogno senza stravolgere l’andamento di vita degli abitanti della grande Beirut che - al di là della città vetrina tutta banche e centri di commercio incentivati dai petrodollari sauditi - di problemi ne ha parecchi. S’è visto mesi addietro con la rivolta della popolazione nauseata dagli afrori dell’emergenza rifiuti che aveva innescato un pericolo sanitario. Ma le nausee verso la politica appaiono ancor più insopportabili se gli elettori si tengono così distanti dai seggi.  Non ne possono più del castello di carte che conserva il suo precario equilibrio sulla divisione confessionale dei poteri in quelle Istituzionali che non trovano una rigenerazione e, secondo i contestatori, non provano neppure a cercarla. Perciò la lista civica sembrava riuscire a scuotere l’immobilismo, sembra non sia bastata. Al di là del seguito ricevuto in alcune aree ad alta concentrazione sciita diversi cittadini non hanno sposato il rifiuto alle liste indicato dal proprio Partito. Si sono recati ai seggi scegliendo appunto gli outsider di “Beyrouth Madinati”, optando per una rottura degli schemi. Un tentativo per arginare il cammino di un avversario consolidato come Hariri per una partita che, pur a basso impatto di partecipazione, resta aperta.

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