Se cerchiamo su una carta
geografica le 34 nazioni che aderiscono alla coalizione anti Stato Islamico
lanciata e diretta dalla dinastia saudita, troviamo Maghreb, Mashreq, Sahel e
anche qualcosa in più come Uganda, Kenia, Somalia (udite) e Pakistan, Afghanistan,
Bangladesh, Malesia. Tutti insieme per combattere i miliziani neri sparsi in
vari luoghi di Medioriente, Asia e Africa, e presenti in alcuni dei Paesi
coinvolti nella “alleanza islamica”. Pronti a un corposo contrasto
intercontinentale che non vuol essere definito guerra, ma non è detto che non
lo diventi. Perché ai raid aerei già presenti (realizzati soprattutto da
americani e inglesi e ora russi) si potranno aggiungere azioni di terra. Non
effettuate più solo dalle unità combattenti kurde e dai peshmerga, ma magari da
eserciti africani che di uomini ne hanno a iosa, armati come si vedrà e diretti
da chi idem. Alla testa dell’impresa si pone la corona di Ryad, che coordinerà
anche il fronte militare, la logica vorrebbe con l’ausilio statunitense di
sempre, Cia compresa. Ma c’è chi dubita.
Non son solo gli anonimi
oppositori al regime che si celano sul web, rischiando non meno d’una protesta
di piazza, poiché il ‘democratico’ Salman non esita a tagliar teste ai poeti,
figurarsi ai contestatori. C’è anche qualche analista che paragona la
coalizione a un’Armata brancaleone che difficilmente impensierirà un nemico
abile nell’infiltrazione, tattico e mutageno. Ma senza lanciarsi in scivolose
previsioni un aspetto appare innegabile nella mossa della corona saudita,
impegnata oltre che col sovrano anche col rampante di corte, il trentenne
Mohammed Bin Salman che accaparra incarichi (è ministro della Difesa e capo
della Corte reale) per il potere prossimo venturo. L’establishment di Ryad prende
spunto da una lotta all’Isis tutta da verificare, visti i canali di
finanziamento che le petromonarchie tengono aperti verso Al-Baghdadi, ma di
fatto punta a rafforzare copiosantemente il suo ruolo internazionale sul mondo
arabo nel contrasto con gli ayatollah
iraniani, rincruditasi nelle vicende yemenite non meno che nella crisi siriana.
La scalata interventista compiuta
dai sauditi nello Yemen contro i ribelli Huthi ha chiaramente mostrato la
strategia di Ryad: diventare il punto di riferimento e il polo di aggregazione
del sunnismo mondiale contro il nemico sciita. Così da una coalizione che lì
riuniva una decina di Paesi, quattro con l’intervento di terra (Egitto,
Giordania, Sudan Pakistan), i restanti con raid aerei (EAU, Kuwait, Qatar,
Bahrein, Giordania, Marocco) si sta passando a un gruppone che triplica le
nazioni alleate. Si dice contro il Daesh e il terrorismo mondiale ma più
concretamente si tratta di segnare un fronte di contrasto ai disegni iraniani.
Rivolti a stabilire una propria egemonia prettamente mediorientale, com’è
accaduto negli ultimi decenni per Libano, Siria, e lo stesso Iraq, magari con
qualche influsso nel Medio Oriente più lontano, soprattutto l’Afghanistan
tornato altamente instabile e soggetto ai sogni d’espansione del Califfato.
Dentro tutto questo c’è la micro politica che scorre, soggetta a giuste
rivendicazioni, quella dell’etnìa Huthi è una delle tante, e continuativamente
abusata da disegni più ampi. Quello dell’anti Isis è solo l’ultimo tassello.
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