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mercoledì 16 dicembre 2015

Coalizione anti Daesh e smanie di potere saudita

Se cerchiamo su una carta geografica le 34 nazioni che aderiscono alla coalizione anti Stato Islamico lanciata e diretta dalla dinastia saudita, troviamo Maghreb, Mashreq, Sahel e anche qualcosa in più come Uganda, Kenia, Somalia (udite) e Pakistan, Afghanistan, Bangladesh, Malesia. Tutti insieme per combattere i miliziani neri sparsi in vari luoghi di Medioriente, Asia e Africa, e presenti in alcuni dei Paesi coinvolti nella “alleanza islamica”. Pronti a un corposo contrasto intercontinentale che non vuol essere definito guerra, ma non è detto che non lo diventi. Perché ai raid aerei già presenti (realizzati soprattutto da americani e inglesi e ora russi) si potranno aggiungere azioni di terra. Non effettuate più solo dalle unità combattenti kurde e dai peshmerga, ma magari da eserciti africani che di uomini ne hanno a iosa, armati come si vedrà e diretti da chi idem. Alla testa dell’impresa si pone la corona di Ryad, che coordinerà anche il fronte militare, la logica vorrebbe con l’ausilio statunitense di sempre, Cia compresa. Ma c’è chi dubita.
Non son solo gli anonimi oppositori al regime che si celano sul web, rischiando non meno d’una protesta di piazza, poiché il ‘democratico’ Salman non esita a tagliar teste ai poeti, figurarsi ai contestatori. C’è anche qualche analista che paragona la coalizione a un’Armata brancaleone che difficilmente impensierirà un nemico abile nell’infiltrazione, tattico e mutageno. Ma senza lanciarsi in scivolose previsioni un aspetto appare innegabile nella mossa della corona saudita, impegnata oltre che col sovrano anche col rampante di corte, il trentenne Mohammed Bin Salman che accaparra incarichi (è ministro della Difesa e capo della Corte reale) per il potere prossimo venturo. L’establishment di Ryad prende spunto da una lotta all’Isis tutta da verificare, visti i canali di finanziamento che le petromonarchie tengono aperti verso Al-Baghdadi, ma di fatto punta a rafforzare copiosantemente il suo ruolo internazionale sul mondo arabo nel  contrasto con gli ayatollah iraniani, rincruditasi nelle vicende yemenite non meno che nella crisi siriana.

La scalata interventista compiuta dai sauditi nello Yemen contro i ribelli Huthi ha chiaramente mostrato la strategia di Ryad: diventare il punto di riferimento e il polo di aggregazione del sunnismo mondiale contro il nemico sciita. Così da una coalizione che lì riuniva una decina di Paesi, quattro con l’intervento di terra (Egitto, Giordania, Sudan Pakistan), i restanti con raid aerei (EAU, Kuwait, Qatar, Bahrein, Giordania, Marocco) si sta passando a un gruppone che triplica le nazioni alleate. Si dice contro il Daesh e il terrorismo mondiale ma più concretamente si tratta di segnare un fronte di contrasto ai disegni iraniani. Rivolti a stabilire una propria egemonia prettamente mediorientale, com’è accaduto negli ultimi decenni per Libano, Siria, e lo stesso Iraq, magari con qualche influsso nel Medio Oriente più lontano, soprattutto l’Afghanistan tornato altamente instabile e soggetto ai sogni d’espansione del Califfato. Dentro tutto questo c’è la micro politica che scorre, soggetta a giuste rivendicazioni, quella dell’etnìa Huthi è una delle tante, e continuativamente abusata da disegni più ampi. Quello dell’anti Isis è solo l’ultimo tassello.

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