Fra la scheda immacolata che il governo uscente,
desideroso di tornare al comando solitario di ottanta milioni di turchi, e il
tesserino insanguinato di uno dei giornalisti di Bugün c’è di mezzo una gran
massa di persone, pensieri, desideri, comuni e distanti. Sia il premier
Davutoğlu sia l’attuale politico più in vista sulla scena del paese, Demirtaş,
presentandosi ai rispettivi seggi di Konya e Sultanbeyli (Istanbul) parlano di
ricerca di vita prosperosa e pace per la nazione. Eppure questo, riferendosi ai
rispettivi schieramenti dell’Akp e dell’Hdp, ha trovato un intoppo tutt’altro
che secondario su un punto che finora è la grande incompiuta del modello erdoğaniano:
il presidenzialismo. Tema che non piace neppure agli altri attori, non del
tutto secondari del panorama turco, i repubblicani del Chp e i nazionalisti del
Mhp, ma che Demirtaş in persona ha bocciato ed escluso ben prima del successo
dello scorso giugno. Con la sua avanzata il Partito democratico del popolo ha
privato l’Akp d’un congruo numero di deputati che avrebbero favorito il
progetto presidenziale.
Secondo parecchi quella scelta pronunciata a
chiare lettere in un intervento nel marzo scorso, espresso col perentorio “Non ti faremo presidente”, ha dato il la
alla rivolta del voto anti Erdoğan di cui ha goduto l’Hdp. Alcuni analisti
sostengono che la mossa abbia anche spiazzato la posizione di Öcalan che,
sebbene il tavolo dei colloqui fosse congelato, tatticamente poteva dibattere
su tale punto in cambio di concessioni alle sue richieste. Di fatto una delle
spine nel fianco dell’ingovernabilità turca è rappresentata dal passaggio dal
Bdp, partito filo kurdo accreditato di un 6% nazionale, all’Hdp allargato a
forze della sinistra, sindacati d’opposizione, cani sciolti del movimento di Gezi
e altri scontenti delle metropoli, anche di quelle fortemente controllate dal
sistema islamico come Ankara. L’oltre 13% ottenuto nello scorso giugno ha
decretato la bontà della scelta di Demirtaş e del suo staff e, nonostante il
panorama turco s’incupisca e sanguini del proprio sangue (gli attivisti del neo
partito sono da mesi il bersaglio dello stato del terrore che agisce in Turchia),
appare realista anche in una fase tanto
tragica.
Il partito del presidente sta demonizzando
questi avversari accusandoli di legami col combattentismo del Pkk (partito fuorilegge
e considerato terrorista), un marchio relativamente spendibile perché i 15
milioni di kurdi che vivono in Turchia sono una realtà non cancellabile,
soprattutto ora che elaborano un progetto politico di tutto rispetto e in
crescita, che lega altre realtà sociali. In più il modello islamico appare
indebolito dai molti fronti di conflitto che s’è creato. Tralasciamo in questa
sede quelli internazionali con quattro anni di follìa in politica estera che hanno
azzerato il motto “zero problemi coi vicini”, per quanto i problemi (guerra
siriana e profughi) si siano anche presentati alle porte del Paese, però Erdoğan col suo ingombrante desiderio di
potenza ha fatto molto per complicarsi la vita. Fra gli intoppi maggiori quelli
all’interno della famiglia islamica, nel contrasto col potente gruppo
imprenditoriale di Fethullah Gülen che come tradizione investe sui bisogni
della popolazione attivando molteplici servizi sociali, risulta uno dei più
logoranti. Poi c’è la lotta palese all’informazione che sta facendo parlare di
dittatura strisciante. Ciò nonostante sulle urne si riversa il voto dello
zoccolo duro dell’Akp, numerosissimo perché i consensi pur in calo coinvolgono
19 milioni di persone.
Costoro continuano a ricordare che i tredici
anni di monocolore islamico hanno aumentato il proprio benessere e l’economia
di casa, hanno offerto lavoro in quelle aree di sottosviluppo presenti ancora
alle soglie del Terzo millennio. Ovviamente poco s’è fatto, e si continua a
fare, nelle province del contrasto, quelle kurde del sudest, ma l’Anatolia
profonda osanna le migliorie introdotte dai piani di Erdoğan, e anche quei
sogni di grandezza che hanno aperto il “Bosforo due” e richiamano una potenza
turca nella regione. Quanto peserà questo voto si vedrà fra breve, quanto
consenso avrà amalgamato il richiamo alla compattezza contro il caos che la
nazione rischia coi disgregatori che strizzano l’occhio al “terrorismo delle
idee e delle etnìe”. Quanto attrattivo potrà essere l’islamismo nazionalista
per convogliare il voto del kemalismo orgoglioso del suo passato autoritario
che può trovare altre vie con rievocazioni ottomane. Su tali rielaborazioni i
teorici del “modello Akp” lavorano da tempo. Per archiviarlo sembrano mancare i
presupposti. Per rilanciarlo, pure. Visto che anche la Turchia subisce i flussi
d’un mondo in movimento.
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