Della rivincita del ‘sultano’ e del rilancio del
suo piano per la nuova Turchia sono piene le pagine della stampa
internazionale. Al di là della coda di polemiche su possibili brogli che
avrebbero gonfiato la rinascita del partito di maggioranza - e soprattutto su pressioni
e impedimenti avvenuti in taluni paesini del sud est, i cui abitanti notoriamente
vicini al partito filo kurdo sono stati ostacolati nel raggiungere seggi
allontanati di decine di chilometri “per ragioni di sicurezza” - tutti i
commenti convergono sul cavallo di battaglia della campagna elettorale dell’Akp
risultato vincente: l’attacco alla nazione turca. Un richiamo irresistibile che
ha cementato il consenso dei fedeli al progetto erdoğaniano che, come affermava
la gente intervistata per via, ha portato giustizia e sviluppo (sono i
sostantivi con cui si denomina il partito islamico). In più ha riconquistato
voti in uscita anche d’una fetta della comunità kurda, ovviamente quella non
politicizzata, e un congruo numero di nazionalisti attratti dal piglio
autoritario e paternalista con cui sempre più il presidente si presenta ai
cittadini. Un Atatürk in versione riveduta, che accantona la laicità per un
secolarismo adeguato islamicamente.
Proprio sul panorama dell’uso dell’Islam e di un
modello autoritario diversi politologi studiano i passi compiuti dagli uomini
dell’Akp. Se Erdoğan risulta il padre-padrone e padrino, viste le implicazioni tangentizie di certe
operazioni nelle quali sono implicati suoi uomini e familiari, anche il premier
Davutoğlu viene monitorato nei pensieri e nelle azioni conseguenti. Diviso fra
un’immagine di stratega, con la politica dello “zero problemi coi vicini”
quand’era ministro degli Esteri, e un ruolo di comparsa dietro cui si cela il
signore della politica turca (Erdoğan) capace di direzionarlo a piacimento,
Davutoğlu viene presentato dal professor Behlül
Özkan, studioso di scienze politiche nel dipartimento di relazioni
internazionali della Marmara University intervistato dal quotidiano Today’s Zaman, come un uomo che vive in
un mondo di sogno. Magari il prof sarà un detrattore del premier, che dopo il
successo dell’Akp dovrebbe ricevere nuovamente l’incarico, però offre
riflessioni interessanti. Sentite. Sul concetto neo Ottomano da applicare
all’attuale modello del proprio partito Davutoğlu sorriderebbe. Il termine è
frutto di elaborazioni giornalistiche ed è scorretto perché gli Ottomani
contrapponevano alle riforme occidentalizzanti una visione multietnica e strutturalmente
religiosa.
Nei maggiori lavori di Davutoğlu (“Profondità strategica” è il più noto)
non ci sono riferimenti a visioni islamiste, fattore che magari ricorre nei
pensieri di Erdoğan e anche di Gül, seppure con una prassi ben diversa fra i
due. Tranciante la valutazione sul ruolo riformista dell’Akp, che promuove uno
sviluppo sociale secondo meccanismi tipici del capitalismo conservatore. Ma -
afferma Özkan - non siamo di fronte a un partito di centro-destra, bensì di
estrema destra. La sospensione dei diritti dei cittadini che manifestano, come
nel caso di Gezi Park, o l’autoritarismo rivolto agli aspetti normali d’una
democrazia borghese, quali la dialettica dei media, starebbero a dimostrarlo.
L’avvicinamento di elettori di stampo fascista e razzista, tuttora presenti in
Turchia e orbitanti nell’area politica dei Lupi grigi, sembra compiersi proprio
con la campagna lanciata in questi mesi di opposizione al caos delle bombe
(creato da chi?), al terrorismo kurdo, alla difesa dei valori turchi cui può
tendere esclusivamente la mano ferma (e ferrea) di quel leader solitario che
Erdoğan pretende di essere. Un conducator
acclamato, in ogni caso, a suon di voti.
Gliene basta il 50% più uno, poiché incentivando
la polarizzazione offre anche una sponda democratica alla sua supremazia, che
magari abolisce la stampa e il pensiero critico, non tutti i partiti (almeno
finora). In tal senso l’Akp è un modello più che mediorientale simile a quelli
dell’estrema destra europea. Dove il comune sentire dei pensieri di Davutoğlu e
i progetti erdoğaniani hanno un unico denominatore è la visione
espansionistica, una sorta di Labensraum
applicato alla Turchia. Özkan sottolinea che quel termine accademico divenne
popolare nella Germania fra gli anni Venti e Trenta del secolo scorso e
indicava come il territorio statale non fosse sufficiente e necessitasse
d’espansione. Tale bisogno d’allargare i confini, secondo il professore, orienta
l’attuale politica turca verso aree d’influenza dove la propria struttura
ideologico-politica possa attecchire. Le primavere arabe e il blocco della
Fratellanza Musulmana operante in Egitto, Tunisia, Iraq, Yemen ha costituito,
pur fra le molteplici contraddizioni della geopolitica, il sogno di un’unione
islamica guidata da Ankara. Certo, il panorama s’è anche arricchito di
soluzioni vecchie, il ritorno al passato egiziano, e nuove, il Califfato
dell’Isis fomentatore d’instabilità da protrarre nel tempo. La Turchia
‘islamica’ gioca comunque la sua partita.
Il punto debole individuato dal professore è la
velleità di Ankara di pensare a un suo potere globale, almeno su un certo
mondo, invece di constatare la dimensione media della propria azione. L’establishment
dell’Akp, ridotto di fatto a pochi soggetti (Gül è emarginato, Gülen è
diventato un acerrimo nemico) si riempie di ‘yes men’ che non aiutano a
riflettere né a elaborare. I think tank sono funzionali alle scelte dell’uomo
al comando e dei pochi fedelissimi. Ovviamente il panorama è in movimento, il
crollo della stabilità siriana, la possibile uscita di scena di Asad,
l’incertezza futura, la disgregazione di due nazioni confinanti, il dramma dei
profughi, insistono sulla scena internazionale e condizionano quella interna turca.
Il modello, che alcuni analisti considerano fallito, e che invece viene
rilanciato da Erdoğan e sembra il salvagente al quale s’aggrappa la maggioranza
della nazione votante, può essere ancora un interlocutore affidabile per la
gestione statunitense dell’ampia area di crisi mediorientale e probabilmente
anche per le pretese russe. La contropartita richiesta dal presidente che vuole
tutto è la mano libera in casa: col Pkk, gli oppositori, i disturbatori
mediatici e non.
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