La Cia lo dà per morto nell’ultima operazione
compiuta da quattro droni nell’area di Damma, fra Afghanistan e il nord
Waziristan, il portavoce dei Tehreek-i-Taliban nega decisamente che la notizia
abbia fondamento: l’attacco c’è stato, si contano una dozzina di guerriglieri
colpiti, ma Khan Said Sajna non sarebbe fra le vittime. Lui è il leader della
frazione dei talebani del Waziristan meridionale che ha guidato una ribellione
rivolta alla componente dei turbanti vicina al governo pakistano. Sajna è
considerato dagli Stati Uniti mente e braccio d’un assalto compiuto quattro
anni fa contro la base navale Mehram di Karaki in cui vennero distrutti due
aerei statunitensi. Allora non agiva con la sigla TTP, ma da quel momento
l’uomo entrava nella lista nera dell’esercito Usa. Invece l’ascesa alla
leadership, pur frazionista dei talebani pakistani, era avvenuta dopo
l’uccisione, sempre tramite un drone, del precedente capo Hakeemullah Mehsud.
Quest’eliminazione è avvenuta in una fase in cui Mehsud s’apprestava a colloqui
con l’allora appena eletto premier pakistano Sharif. Probabilmente Washington
voleva impedire quest’avvicinamento.
Nelle terre del Waziristan Hakeemullah viene
ricordato come un guerrigliero intelligente e coraggioso, l’aneddotica lo menziona
alla guida d’un gruppo talebano che nel 2007 catturò addirittura trecento
soldati pakistani; giornalisti che
l’hanno avvicinato, come Shoaib Hasan della Bbc,
lo presentavano come “un giovane vivace e
audace”. Sulla sua fine c’è un velo di mistero perché, dopo l’annuncio
della morte a mezzo del cannoneggiamento via drone, una voce maschile registrata
che dava le sue generalità sostenne d’essere scampato all’attacco. Forse si
trattava d’un messaggio a uso interno fra i miliziani talebani, affinché non ci
fossero sbandamenti e defezioni. Il rapporto di questa componente con l’ex
fazione qaedista in Pakistan e coi jihadisti locali (Lashkar-e-Taiba, Jaish-e
Mohammed) continua a essere stretto. Per contrastare tali forze la scelta statunitense
s’è rivolta ormai da quattro anni prevalentemente ai velivoli senza pilota,
guidati a distanza da basi che sorgono a centinaia di chilometri (quelle
afghane) o a decine di migliaia (quelle del Nevada). Prima di Sajna e
Hakeemullah l’antecedente responsabile del gruppo armato, Baitullah, era
rimasto vittima di un’eliminazione mirata a mezzo di drone.
Un rapporto del comando statunitense girato alle
maggiori agenzie afferma che gli attacchi sferrati negli ultimi giorni hanno
registrato l’eliminazione di 45 talebani. Questi dispacci non parlano mai di
‘danni collaterali’ (il termine coniato dall’informazione dello stesso esercito
Usa per indicare l’uccisione di civili) che ogni azione si trascina dietro,
anche quando parla di colpi mirati perché quest’ultimi non vengono condotti sul
singolo bersaglio, ma lo colgono in situazioni in cui è circondato da adepti o
semplicemente da gente di passaggio. Così la stampa internazionale s’interroga
sull’efficacia del programma e pone la questione se i droni non producano più
terroristi (che per reazione abbracciano la jihad) che nemici colpiti. Inoltre alcuni docenti universitari
americani, impegnati sul tema della sicurezza, fanno notare che mancano dati
certi sugli effetti delle uccisioni, confermate da chi le esegue, smentite da
chi le subisce come nei casi citati, e volutamente carenti riguardo alla
popolazione coinvolta. La guerra coi droni evita solo i decessi di piloti (colpiti
da altre sindromi, cfr. http://enricocampofreda.blogspot.it/2015/11/mal-di-drone.html) non di vite di civili,
come ogni altro attacco aereo. Mentre perdere un drone risulta molto più
costoso d’un F16; ma questo finora accade di rado.
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