Le deteriorate condizioni di sicurezza mettono a
rischio il corretto svolgimento delle consultazioni elettorali. L’afferma senza
mezzi termini il capo dell’Osce (Organization for Security and Cooperation in
Europe) Ahrens, che non nasconde la
preoccupazione per la china violenta che assume la quotidianità in Turchia. E’
un pensiero diffuso, manifestato anche da illustri intellettuali che, come il
premio Nobel della letteratura Pamuk intervistato dal quotidiano La Repubblica, afferma “… a Istanbul nei due ultimi mesi il clima è
diventato impossibile”. Un clima di paura, oltre che di palese rischio di
finire smembrato da ordigni collocati da mani occulte oppure colpito dalle
pallottole poliziesche che reprimono chi manifesta. Nel suo ruolo mister Ahrens,
che ricorda d’aver incontrato Erdoğan quando si candidava alle presidenziali
del 2014, non è riuscito ad avere contatti con l’attuale premier Davutoğlu né
con il leader del movimento nazionalista Bahçeli. Entrambi sembrano voler evitare
di trattare temi della violenza e della polarizzazione che ha visto gli
attivisti dei loro partiti scagliarsi contro l’opposizione kurda e di sinistra.
Questo panorama preoccupa l’Osce perché se
ciascun cittadino non si sente libero d’esprimere i pareri personali e il voto,
evitando ogni pressione privata o statale, non si può più parlare di situazione
normale. Da parte sua la polizia promette di riuscire a vigilare sulla sicurezza
di seggi ed elettori mentre il Consiglio Elettorale Supremo esprime di non
voler allontanare i votanti dai luoghi abitati, ma proprio premier e presidente criticano le decisioni del
Consiglio considerandole pericolose per l’incolumità della popolazione. Di
certa più di altre: le genti del sud-est, la comunità kurda. L’Osce di fronte
alle scelte del coprifuoco e di cosiddette ‘zone di sicurezza’ esprime un
parere per nulla tranquillizzante e col suo rappresentante sostiene di “non poter più parlare d’un quadro normale”.
Certo non si è davanti a quanto affermano o scrivono alcuni giornalisti
d’opposizioni, ancora dotati di libertà d’espressione, che lanciano paragoni
fra il proprio Paese, Siria e Iraq; paralleli comunque non campati per aria, vista
anche la fitta schiera di miliziani dello Stato Islamico di passaggio o
addirittura operativi, come i sospettati dell’attentato di Ankara.
Nessuno dei 385.000 agenti vantati dal ministro
dell’Interno Altınok (in odore di dimissioni
per salvare quel Davutoğlu accusato di stragismo da Demirtaş e di mancata
vigilanza dal repubblicano Kılıçdaroğlu) nelle
scorse settimane aveva difeso dagli assalti sedi dell’Hdp e redazioni dei media
liberali. Né alcun poliziotto di servizio s’aggirava presso la stazione di
Ankara la mattina dell’attentato. Agenti antisommossa sono giunti a sangue
ampiamente versato, secondo gli attivisti d’opposizione per suggellare con
caschi e armi il disprezzo verso le tante vite stroncate dal disegno stragista.
Proprio per ragioni di sicurezza e per garantire incolumità, l’Hdp valuta di
cancellare tutti i raduni pubblici sino alle elezioni di novembre, non è
escluso che lo facciano anche altre forze politiche. Eppure un pezzo di
Turchia, la più cosciente e meno ricattabile, oggi ha marciato. Per ricordare
le vittime, per denunciare lo stragismo che vuol paralizzare le teste delle
persone incutendo paura, per sostenere le conquiste di normalità insidiate
dalle bombe che spianano la strada alla proposta autoritaria di bisogno
dell’uomo forte. Erano e sono lavoratori e giovani, la Turchia multietnica e
democratica che vive alla luce del sole, che vuole partecipare e decidere fuori
dai rigurgiti dello ‘Stato profondo’ golpista e sue nuove versioni di
presidenzialismo islamico.
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