“Istanbul
non porta la tristezza come ‘una malattia temporanea’, oppure ‘un dolore da cui
liberarsi’, ma come una scelta...” eppure lo scrittore Orhan Pamuk, come
altri cittadini liberi di Turchia è angosciato dall’attuale orizzonte che sta
vivendo il Paese. Attanagliato nella morte, come durante i cupi tempi d’una
dittatura lunghissima, quando negli anni Sessanta, Settanta, Ottanta, periodi
in cui lui era bambino, ragazzo e poi giovane uomo generali e militari dettavano
legge sul resto della cittadinanza torturando, incarcerando, assassinando. Quei
tempi sembrano tornare, attuati da un presidente assetato di potere sino al
punto di dimenticare un passato che l’ha portato in galera, perseguitato dai
militari kemalisti per il la sua fede islamica.
Eppure Erdoğan che di strada ne ha fatta tanta,
diventando sindaco proprio della città pontiera d’Istanbul (che è Bisanzio e
Costantinopoli, sponda europea e asiatica, luogo, come ricorda lo scrittore,
dove ”le rovine convivono con la città”)
prima d’essere premier e ora presidente ha dimenticato i tempi del dolore, se
tanto ne produce con una gestione assolutistica del suo ruolo. In una recente
intervista a La Repubblica il premio
Nobel ha dichiarato “A Istanbul la vita
negli ultimi due mesi è diventata impossibile. Gli amici continuano a dirti:
non scendere a prendere la metro, non andare in piazza Taksim, non frequentare
posti affollati. La sindrome della bomba sta accerchiando le nostre vite, ma
tutta la gente in Turchia non vuole altro che la pace”.
La chiedevano anche quelle migliaia di
lavoratori e giovani che sabato scorso manifestavano ad Ankara quando in trenta
secondi due esplosioni hanno sparso frammenti di ferro sui volti e sul corpo di
decine di loro. Lacerandoli. Sono morti in 97 ma di un’altra trentina non si
hanno notizie da giorni. Potrebbero risultare fra le vittime. Nell’ennesimo
disastro che soffoca il Paese, assieme alla guerra civile latente fra
l’esercito e le organizzazioni politiche kurde, all’attacco alla libertà
d’informazione e finanche di parola condotto da Erdoğan a suon di arresti, c’è
stato un piccolo miracolo. L’insegnante Izettin che abbracciava la moglie dopo
l’attentato ricoperto del proprio e dell’altrui sangue, e dato per morto
insieme alla figlia, non è fra le vittime. L’uomo vive, seppure con la
tristezza orgogliosa di cui parla Pamuk. Questa “resurrezione” può
rappresentare un viatico per la rinascita della Turchia.
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