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venerdì 3 aprile 2015

Crisi turca, le debolezze dello Stato forte

Coincidenze, speculazione, complotti. Il dibattito in corso in Turchia fra opinionisti, prim’ancora che fra politici, è più concentrato sui risvolti pratici e per certi aspetti misteriosi degli ultimi giorni, che sulla crisi del sistema erdoğaniano su cui dirà la sua il voto del 7 giugno.

Cyber attacco – Fra i tanti avvenimenti un momento inquietante è rappresentato dal lungo blackout che il 31 marzo ha oscurato buona parte del Paese. Incidentale? Provocato? Magari creato ad arte per introdurre attacchi come quello rivolto al giudice Kiraz? La relazione del ministro dell’Energia Yıldız è stata vaga, incentrata sul concetto “è presto per avere certezze sulle cause dell’interruzione dell’erogazione”, ma egli stesso ammette di non aver mai visto nulla di simile in oltre trent’anni di servizio prestato in vari ruoli nel campo. “Non si esclude nulla, comunque non dovrebbe trattarsi d’un cyber attacco. Nel 2003 anche gli Stati Uniti ebbero un’interruzione addirittura di 36 ore. E poi Italia, Svizzera, Austria, Slovenia sono nazioni che hanno riscontrato problemi simili”. Con questo si cerca di fugare il sospetto che ci sia qualcuno capace di realizzare intromissioni informatiche che consentono di mettere in ginocchio la nazione, ostacolando la fornitura energica.

Sicurezza - Nell’occhio del ciclone il fattore sicurezza che ha visto violare con disinvoltura l’accesso al palazzo della procura dov’era l’ufficio del giudice Kiraz. Un piano anche qui preordinato o semplice avventatezza nei controlli? In tal senso è intervenuto direttamente il presidente Erdoğan che s’è scagliato contro le inefficienze del servizio di vigilanza privata. La sua proposta sta nel sostituirlo con forze di polizia soprattutto nei luoghi pubblici che possono diventare obiettivi sensibili (tribunali, ospedali, stadi). Il numero degli addetti al settore è considerevole, sfiora le 270.000 unità, rimpiazzarli non sarà facile in tempi brevi. Presupporrebbe distogliere gli agenti da altri compiti o lanciare un reclutamento straordinario di poliziotti. Su tale terreno l’opposizione repubblicana ha lanciato i suoi sospetti. Per alcuni esponenti del Chp l’azione compiuta dai militanti del Fronte di liberazione del popolo e l’assalto di una loro kamikaze alla centrale di polizia potrebbero essere provocazioni telecomandate, o tollerate dall’Intelligence, per favorire un’ulteriore stretta a ogni libertà, di comunicazione, riunione, manifestazione che il premier Davutoğlu ha richiamato nelle ore immediatamente successive al sequestro del magistrato. Si tratta della legge sulla sicurezza interna voluta dall’Akp e contestata dall’opposizione, soprattutto repubblicana.


Inefficacia della repressione - Chi ha ucciso Kiraz? Con tre pallottole in testa e due nell’addome è possibile che sia stato colpito anche o solo dal “fuoco amico”. Affermare, come fa l’establishment turco, che l’operazione sia riuscita è un’assurdità visto che il procuratore è fra le vittime, e gli  stessi sequestratori non sono stati catturati ma freddati. Comunque l’area kemalista più dura spinge meno sull’acceleratore nella contestazione alle modalità repressive da parte dell’attuale governo. I nazionalisti le approvano in pieno, anzi verso il cosiddetto terrorismo adotterebbero metodi dissuasivi più drastici come facevano i militari dei decenni passati. L’Esecutivo cerca un salvagente nella teoria del complotto messo in atto dagli amici diventati nemici, come il movimento di gülenista che gode, o forse godeva, d’un certo seguito fra poliziotti e magistrati. Ma questi settori hanno conosciuto l’epurazione erdoğaniana che ha rimosso, alternato, pre-pensionato, e poi  collocato uomini di sua fiducia nei punti strategici.


Accuse e vaga alternanza - Bisognerà vedere come l’elettorato percepirà questa giostra di recriminazioni reciproche. Chi sta perdendo di credibilità è l’immagine stessa della nazione, con tanto di forza, spinta propulsiva, voglia di dominare gli spazi interni e regionali per determinare un domani finora dipinto come grandioso. Su questo terreno perdono tutti: il sultano col suo progetto di Grande Turchia che, respinta dall’Europa, s’è messa a giocare col fuoco mediorientale per le manìe di grandezza del proprio regista; perdono i kemalisti - repubblicani e ipernazionalisti - che del capitalismo rampante negli anni Novanta furono sostenitori. Resta il malcontento di certe piazze, il popolo di Gezi Park, i giovani metropolitani, gli operai stritolati da lavori desueti, come i minatori di Soma dati in pasto all’insicurezza dei luoghi e dei sistemi, che purtroppo per loro non fanno blocco sociale. E c’è l’incognita kurda, il nemico storico che Erdoğan lusinga e colpisce. Lo vorrebbe alleato per continuare a inseguire un sogno costellato di trappole, ma il tempo perduto sta riallargando le crepe.

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