Fra gli ultimi condannati alla pena
capitale dall’Alta Corte egiziana c’è l’ennesimo nemico
della nazione: tal Hany Amer, di mestiere informatico, di sponda politica
islamista dell’ala dura di Ansar Beit al-Maqdis. E’ accusato d’aver preso parte
all’assalto omicida svoltosi contro un check-point dell’esercito esattamente un
anno fa. L’avvocato di Amer contesta accusa e sentenza, evidenziando che
l’assistito non era in condizione di attaccare nessuno poiché da oltre tre mesi
era rinchiuso nella prigione militare di Azouli, luogo di detenzione illegale e
tortura, presso il campo di Galaa a 100 km nord-est dal Cairo. Alla
contestazione di parte non hanno finora risposto né giudici né l’apparato
militare. Scosse elettriche nei punti più sensibili del corpo, percosse,
affissioni per i polsi dopo spoliazione totale, getti d’acqua gelida sul corpo
e tecniche di ‘annegamento’ sono le pratiche utilizzate dai carcerieri secondo le
testimonianze raccolte da Amnesty International, che considera l’attuale
situazione repressiva la più dura vissuta dall’Egitto moderno. I familiari di
Amer sostengono che il congiunto sia diventato un capro espiatorio per le sue
idee politiche vicine a un noto predicatore salafita e lo si accusa – peraltro
in palese contraddizione di tempi e fatti – perché nell’episodio in questione
le indagini sono cadute nel vuoto. E’ un comportamento diffuso negli ultimi
mesi, che mette in correlazione oppositori politici con la crescente serie di
attentati di matrice jihadista accaduti in diverse città.
La galera speciale dove Amer è stato
rinchiuso è una delle decine (parecchie non sono state
rivelate) dov’è segregato un numero di oppositori che secondo stime
approssimative oscilla fra le 22.000 e 41.000 unità. I parenti di centinaia di
loro, taluni arrestati dall’estate 2013, non hanno mai avuto notizie e ne
denunciano la sparizione. Il ministero dell’Interno e gli organi di giustizia
non rispondono agli appelli dei cittadini né alle domande di organismi che si
occupano di diritti umani. Mesi fa il quotidiano inglese The Guardian intervistò un paio di detenuti usciti da quell’inferno
che narrarono condizioni e trattamenti finiti nei dossier di Human Rights Watch.
“Sei qui, ma non risulti -
testimoniavano i due - non c’è passaggio
documentato della tua presenza. Se crepi per quello che ti fanno nessuno lo
saprà mai”. Sicuramente una parte dei prigionieri di questi centri sono
salafiti, alcuni sostenitori d’un fondamentalismo settario, e jihadisti
prelevati nelle retate compiute dall’esercito nel Sinai, in certi casi arrestando
decine di membri di tribù beduine accusati di fare da basisti ai nuclei di
guerriglieri. Ci sono anche militanti della Fratellanza Musulmana finiti
fuorilegge e, come ha denunciato l’attivista Alaa al Fatah, condannato a cinque
anni di reclusione, giovani oppositori laici al regime di Sisi che non seguono
l’Islam politico. Negli arresti di massa compiuti durante la grande repressione
con la strage davanti e dentro la moschea di Rabaa fra i morti e gli
incarcerati c’erano anche semplici passanti.
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