Fra i commenti
di taluni opinion leader di blasonati quotidiani nostrani sulla strage in
Tunisia e il pericolo Isis scegliamo quelli de La Repubblica del 19 marzo e gli odierni de Il Corriere della Sera. Al cospetto degli imbarazzati vuoti dei
Paesi dell’Unione Europea, all’inesistenza d’una politica internazionale
unitaria su scala globale e pure locale, alla goffaggine autolesionista
d’interventi compiuti (Libia) o caos lasciati deteriorare (Siria e Iraq) Gad
Lerner non trova di meglio che riparare in una patriottica “linea del Piave”.
Così la definisce in chiusura del suo articolo comparso sul quotidiano diretto
da Ezio Mauro. Il titolo “Nella trincea
del Mediterraneo” è già esplicativo dell’orientamento di chi scrive.
“… Fermarli (i jihadisti) comporta un’assunzione di responsabilità troppo a lungo rinviata. Un
rinvio di cui si comprendono le ragioni: siamo turbati dalle implicazioni
militari della scelta che s’impone al nostro governo e all’Unione Europea (…)
Quando i nostri concittadini vengono presi in ostaggio a centinaia, e l’Europa
viene sospinta con ferocia a considerare zone d’accesso proibito la sponda
meridionale del mare in cui si bagna, è evidente che un’azione di polizia
internazionale diviene imperativa. E che l’Italia, diretta interessata, viene
chiamata dalla geografia a esserne protagonista”.
“… La resistenza coraggiosa di una società civile tunisina che condivide
con noi i valori del pluralismo e della laicità, ha lacerato al suo interno la
Fratellanza musulmana, trascinando una parte cospicua degli integralisti
a partecipare al processo costituzionale”.
“L’Algeria vent’anni fa ha vissuto un martirio con centomila morti,
interi villaggi massacrati all’arma bianca dai tagliagole del Gia. E
quell’ecatombe, anticipatrice della guerra in corso oggi, venne scandalosamente
favorita dalla nostra indifferenza (…) fino a che l’esercito algerino non è
riuscito a debellare i jihadisti in un bagno di sangue”.
“La scelta militare è imprescindibile, e al tempo stesso ne
avvertiamo tutti i limiti, perché è chiaro che in questo conflitto le
implicazioni culturali sono altrettanto decisive. (…) Le insidie di un’azione
di polizia internazionale fanno tremare le vene ai polsi. Ma tanto per
cominciare, se la minaccia libica non fosse bastata ancora a smuoverci, la
difesa della Tunisia come ponte d’unione della democrazia e del Mediterraneo è
diventato da ieri una nuova strategica linea del Piave”.
Guerra,
dunque. Giustificata dal terrore e dalle stragi verso i civili, che ahinoi vengono
perpetrate quotidianamente, anche da “Stati terroristi” non presi però in
considerazione da Lerner. Cosa che non sminuisce l’efferatezza e il pericolo
dell’Islam fondamentalista seminatore di morte, però sembra trattarsi d’un
invito interventista senza strategie né piani che può somigliare per
avventatezza proprio all’ultima avventura libica, cui lo stesso autore rivolge
una riflessione tutt’altro che positiva (“un
intervento nel magma del deserto delle tribù libiche, rischia di trasformarsi
in una trappola”). E allora? Lì la ribellione, contro un liberatore diventato
nei decenni un despota, fu cavalcata per rincorrere biechi interessi di parte
del capitalismo (francese) che rappresenta un fantasma mai morto, su cui gioca
la sua partita la propaganda antioccidentale del Califfato. Che sì, propone
tutto il suo oscurantismo manipolando la scrittura del libro, denunciata da
tanti islamici, ma si fa forte di quel colonialismo di ritorno che proprio la
Francia persegue nell’amato e sfruttato Maghreb. Basta ripercorrere la storia
passata e recente proprio di Tunisia, Algeria, Marocco e scoprire come tuttora,
a decenni da indipendenze conquistate da quei popoli in certi casi con enorme
spargimento di sangue, lo spolpamento dei beni nazionali stia proseguendo. L’esempio
delle risorse energetiche è fin troppo scontato, non trattato, tanto per fare
un nome, dalla Total come negli anni Cinquanta, ma sempre con intenzioni mai
galanti. Anche perché talune leadership, l’esempio stavolta lo spostiamo in
Tunisia sui laici provenienti dalla casta militare Bourghiba e Ben Ali, dietro
la maschera dell’apertura e dell’occidentalizzazione favorivano oligarchie
straniere e clan familiari. Altrettanto fa la monarchia marocchina che dalla
Veolia, impiegata in ogni genere di servizi, riceve non poche prebende.
Sono trascorsi
decenni, straordinari per l’indipendenza nazionale e le conquiste
rappresentative delle genti del Maghreb, ma restano indelebili macchie
d’imperialismo, che nell’immaginario culturale hanno il proprio peso. Si pensi
ai coloni francesi d’Algeria, ricordati col nomignolo di pieds-noirs, di cui Albert Camus fu figura nota per l’impatto
culturale. Costoro consideravano la terra in cui erano nati la loro terra, e
solo la rinuncia alla grandeur cui De Gaulle fu costretto dall’estenuante
guerra di Liberazione pose fine ai dolorosi contrasti. Minacciati dal
nazionalismo arabo che gli raccomandava “la valigia o la bara”, gli ex coloni
vissero un esodo verso una Francia che faceva difficoltà ad accoglierli. Anche
perché erano oltre un milione. Solo la destra militarista e sciovinista li
abbracciava. Scriveva Camus ne “La
rivolta libertaria”: “Un'Algeria
costituita da insediamenti federati e legati alla Francia mi sembra
preferibile, senza confronto possibile rispetto alla semplice giustizia, a
un'Algeria legata a un impero islamico che per i popoli arabi non farebbe che
sommare miserie alle miserie, sofferenze alle sofferenze, e che strapperebbe i
francesi d'Algeria dalla loro patria naturale. Se l'Algeria che io spero
conserva ancora una possibilità di realizzarsi, desidero aiutarla con tutte le
mie forze. Ritengo invece di non dover sostenere nemmeno per un istante e in
alcun modo la costituzione dell'altra Algeria. Se invece si formasse questa
sarebbe per me un'immensa disgrazia, e ne dovrei trarre tutte le conseguenze,
io come milioni di francesi. Ecco, molto sinceramente, come la penso”. Chiediamoci
come poteva venir percepito il laico, marxista e poi anarchico scrittore dalla
popolazione algerina dei Sessanta e come lo possano considerare due generazioni
seguenti, vissute comunque in una nazione laica. Che negli anni Novanta - come
Lerner rammenta - visse l’incubo degli sgozzamenti praticati dai militanti del
Gia, quando costoro intrapresero una lotta armata senza quartiere seguita al
disconoscimento dell’avanzata elettorale. Lo scippo d’un successo conseguito
nell’urna dal Fronte di salvezza islamico, usando i metodi della democrazia
borghese, la quale, superata, rifiutò di riconoscere le regole da lei dettate e
accettare l’avversario.
E’ il black out vissuto da
un’altra “Primavera tradita”, l’egiziana, con la Fratellanza massacrata e
ridotta al silenzio, probabilmente perché ritenuta integralista, come Lerner definisce
quella tunisina di Ennahda, che però si sarebbe redenta espellendo la parte
spuria e guerrigliera. Un fenomeno probabile, perché in ogni componente
politica esiste chi può estremizzare il suo credo. Forse l’estremizza ancor più
quando vede gli spazi d’agibilità ridursi a zero, come accade da due anni in
Egitto. Sull’irrisolta tara del colonialismo che è, ribadiamo, tuttora la piaga
più purulenta del modernismo nordafricano, virato presto da autodeterminazione
a nuovi gioghi economici e oligarchie locali. Queste non sembrano amare i popoli
governati, sia perché continuano ad affamarli non redistribuendo ricchezza, sia
perché s’identificano con l’Occidente che agli occhi d’un maghrebino bisognoso,
spinto sui barconi della disperazione, appare quantomeno ambiguo e usurpatore
come l’establishment che governa. Chi invece non ha dubbi è Ernesto Galli della
Loggia. E con lui Pierluigi Battisti e la direzione de Il Corriere della Sera. Il primo reclama, è ora, l’esercito
dell’Unione europea “E con veri capi
politici: gli unici che nei momenti cruciali possono fare scelte coraggiose,
costruendo altresì attorno ad esse il consenso necessario”. L’altro, col
vittimistico stilema che lo contraddistingue, pone domande retoriche: “Che colpa ci vogliamo dare? … la Siria e i
duecentomila morti ammazzati da Assad, … se qualche qualche giovane musulmano
in Francia fa una carneficina, … se ammazzano gli ebrei in una pizzeria di
Gerusalemme, … se irrompono in un dibattito in Danimarca e danno l’assalto alla
Sinagoga…” Se i turisti crepano nel museo che stavano visitando. Entrambi
assolvono l’Occidente, che a loro dire non ha colpe (“invece le menti migliori delle nostre generazioni spendono la loro
sottile e ammirata intelligenza a dire che è <colpa nostra>, che <ce
la cerchiamo>”). Entrambi chiedono di rompere l’assedio e…? La saggezza,
oltre che un briciolo di strategia, suggerirebbe di tenere i piedi in terra e
cercare di capire la via. Galli della Loggia e Battista sicuri la indicano.
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