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venerdì 14 novembre 2014

Egitto, lo scontro del terrore

Taluni analisti iniziano a domandarsi quanto siano utili azioni e metodi antiterroristi dell’esercito egiziano nella caldissima regione del Sinai. Secondo l’establishment cairota, che è un tutt’uno col presidente-generale Al Sisi, lo sono. Ma l’escalation di attacchi, sino a giungere a quello dello scorso 24 ottobre che ha ucciso 31 soldati, e le rabbiose reazioni militari lanciate indiscriminatamente contro vari soggetti stanno facendo riflettere. Una repressione durissima che, mirando al terrorismo islamico, plana non solo su membri delle tribù beduine, considerate fiancheggiatrici e in alcuni casi esse stesse jhadiste, ma anche sugli abitanti della zona di confine prossima al valico di Rafah, quello che conduce alla Striscia di Gaza. Negli ultimi tempi i frontalieri hanno subìto arresti e torture oppure sono incappati in rapimenti stile Rendition, metodi noti ai mukhabarat addestrati dalla Cia mai scomparsi fra le stellette egiziane. E riornati di moda con la linea politica voluta dall’uomo forte della rinascita nazionale sotto il segno della restaurazione. In aggiunta sono arrivate le ruspe che fanno piazza pulita di case, radendo al suolo tutto, in perfetto stile Tsahal. Ora l’area attorno a Rafah lamenta una trasmigrazione forzata di popolazione per ragioni di sicurezza.
Si riflette sulla sostanza, oltreché sulla forma che nel caso di misure eccezionali non segue certo la strada delle buone maniere. L’intento di Sisi e di una parte del ceto politico egiziano era colpire gli avversari della Fratellanza Musulmana, e così è stato. Non ripercorriamo quanto si conosce sulla prassi seguita dopo la defenestrazione del presidente Mursi, legittimata coi massacri della Moschea di Rabaa. Dalle settimane di luglio-agosto 2013 il giro di vite ha raggiunto picchi elevatissimi, s’è poi abbattuto su altri elementi: attivisti laici del movimento di Tahrir, intellettuali e blogger più o meno noti, giornalisti egiziani, cronisti stranieri. Paura, silenzio, omertà hanno ripreso piede nel Paese che s’era sollevato contro la quarantennale dittatura. L’estrema coercizione crea spazi per soluzioni estreme e da mesi si valuta il reclutamento che forze jihadiste come Ansar Beit al-Maqdis - già filo Al-Qaeda ora avvicinatasi all’Isis - stanno registrando. Le adesioni possono arrivare dalla stessa area intransigente della Fratellanza, secondo alcuni sempre permeata dalle dottrine armatiste di Qutb, secondo altri “costretta” a tale passo dall’impossibilità di seguire una via politica legalitaria e ufficiale.
A sostegno della teoria del legame fra Brotherhood e il citato gruppo jihadista – dallo scorso aprile inserito da Stati Uniti e Gran Bretagna nella lista del terrorismo mondiale - ci sarebbero finanziamenti provenienti dal magnate Khairat Al-Shater, vicepresidente della Fratellanza, in prigione dal 5 luglio 2013. Sebbene su iniziativa del procuratore generale Barakat i beni di Al-Shater, Ezzat, Al-Khatany e altri membri della Confraternita vennero congelati qualche giorno dopo l’arresto e da allora ne viene impedito l’uso. In realtà non è facile stabilire se quest’operazione sia riuscita a pieno, soprattutto riguardo alle ramificazioni di finanza mondiale che il potente e ricco Al-Shater aveva col suo patrimonio nato nei settori tessile e alberghiero, ingigantitosi lungo il percorso imprenditoriale. Forse occorrerebbero rogatorie internazionali che nessuno ha mai richiesto.  L’altro uomo d’oro della Fratellanza è Hassan Malek. Nei mesi del governo Qandil il suo Egyptian Business Development stilava accordi economici con Turchia e contemporaneamente con Spagna, Olanda, Gran Bretagna, Canada, India, seguendo la ferrea legge dell’affarismo di mercato ovunque applicata. Ben oltre la scoperta di chi finanzia chi, utile a svelare taluni misteri che nel caso di petromonarchie, Turchia e parecchi ‘aid’ statunitensi sono sotto la luce del sole, è utile soffermarsi su particolari che introducono scenari di medio termine.
Un Egitto destabilizzato, in una regione infuocata, non fa bene soprattutto alla vita egiziana. Il Sinai, deserto a parte, è zona d’introiti turistici, linfa vitale per l’economia di casa. La cura militare sembra favorire un caos ancora più aspro dei mesi scorsi, per l’acuirsi del livello di scontro interno e l’alibi offerto alle posizioni estreme del fondamentalismo salafita applicato da Ansar e dai gruppuscoli alleati dell’internazionale jihadista. La situazione s’ingarbuglia ulteriormente se s’ipotizza la pratica d’infiltrazione rivolta all’elefantiaco corpo militare e degli stessi organi di sicurezza. I terroristi potrebbero imitare la tattica dell’arruolamento di propri miliziani per colpire dall’interno. Non tanto per abbattere un simbolo come fece Al Istambuli l’uccisore di Sadat, quanto per creare tensione continua con centinaia di agguati, come fanno i talebani inseriti nell’esercito afghano. Sospetti sono sorti durante le indagini sull’attentato al quartier generale della polizia, ma sono rimasti sotto traccia. Fra le ipotesi anche quella di un’esplosione creata ad arte da porre sul piatto della bilancia elettorale, per quanto dall’esisto scontato. Certo le bombe ai gasdotti, i razzi su Eilat, le sparatorie sugli uomini in divisa sono frutto di elaborazioni autoctone dell’islamismo armato. Però nel Sinai “Falcon uno e due” degli anni 2011 e 2012, più la “guerra” lanciata dal settembre 2013 non sembrano sinora efficaci come Al Sisi s’aspettava.


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