Taluni analisti iniziano a domandarsi quanto
siano utili azioni e metodi antiterroristi dell’esercito egiziano nella
caldissima regione del Sinai. Secondo l’establishment cairota, che è un
tutt’uno col presidente-generale Al Sisi, lo sono. Ma l’escalation di attacchi,
sino a giungere a quello dello scorso 24 ottobre che ha ucciso 31 soldati, e le
rabbiose reazioni militari lanciate indiscriminatamente contro vari soggetti stanno
facendo riflettere. Una repressione durissima che, mirando al terrorismo
islamico, plana non solo su membri delle tribù beduine, considerate
fiancheggiatrici e in alcuni casi esse stesse jhadiste, ma anche sugli abitanti
della zona di confine prossima al valico di Rafah, quello che conduce alla
Striscia di Gaza. Negli ultimi tempi i frontalieri hanno subìto arresti e torture
oppure sono incappati in rapimenti stile Rendition, metodi noti ai mukhabarat addestrati dalla Cia mai
scomparsi fra le stellette egiziane. E riornati di moda con la linea politica
voluta dall’uomo forte della rinascita nazionale sotto il segno della restaurazione.
In aggiunta sono arrivate le ruspe che fanno piazza pulita di case, radendo al
suolo tutto, in perfetto stile Tsahal. Ora l’area attorno a Rafah lamenta una
trasmigrazione forzata di popolazione per ragioni di sicurezza.
Si
riflette sulla sostanza, oltreché sulla forma che nel caso di misure eccezionali
non segue certo la strada delle buone maniere. L’intento di Sisi e di una parte
del ceto politico egiziano era colpire gli avversari della Fratellanza
Musulmana, e così è stato. Non ripercorriamo quanto si conosce sulla prassi
seguita dopo la defenestrazione del presidente Mursi, legittimata coi massacri
della Moschea di Rabaa. Dalle settimane di luglio-agosto 2013 il giro di vite
ha raggiunto picchi elevatissimi, s’è poi abbattuto su altri elementi:
attivisti laici del movimento di Tahrir, intellettuali e blogger più o meno
noti, giornalisti egiziani, cronisti stranieri. Paura, silenzio, omertà hanno
ripreso piede nel Paese che s’era sollevato contro la quarantennale dittatura. L’estrema
coercizione crea spazi per soluzioni estreme e da mesi si valuta il
reclutamento che forze jihadiste come Ansar Beit al-Maqdis - già filo Al-Qaeda ora
avvicinatasi all’Isis - stanno registrando. Le adesioni possono arrivare dalla
stessa area intransigente della Fratellanza, secondo alcuni sempre permeata
dalle dottrine armatiste di Qutb, secondo altri “costretta” a tale passo
dall’impossibilità di seguire una via politica legalitaria e ufficiale.
A sostegno
della teoria del legame fra Brotherhood e il citato gruppo jihadista – dallo scorso
aprile inserito da Stati Uniti e Gran Bretagna nella lista del terrorismo
mondiale - ci sarebbero finanziamenti provenienti dal magnate Khairat Al-Shater,
vicepresidente della Fratellanza, in prigione dal 5 luglio 2013. Sebbene su
iniziativa del procuratore generale Barakat i beni di Al-Shater, Ezzat,
Al-Khatany e altri membri della Confraternita vennero congelati qualche giorno
dopo l’arresto e da allora ne viene impedito l’uso. In realtà non è facile
stabilire se quest’operazione sia riuscita a pieno, soprattutto riguardo alle
ramificazioni di finanza mondiale che il potente e ricco Al-Shater aveva col
suo patrimonio nato nei settori tessile e alberghiero, ingigantitosi lungo il
percorso imprenditoriale. Forse occorrerebbero rogatorie internazionali che
nessuno ha mai richiesto. L’altro uomo
d’oro della Fratellanza è Hassan Malek. Nei mesi del governo Qandil il suo Egyptian Business Development stilava
accordi economici con Turchia e contemporaneamente con Spagna, Olanda, Gran
Bretagna, Canada, India, seguendo la ferrea legge dell’affarismo di mercato
ovunque applicata. Ben oltre la scoperta di chi finanzia chi, utile a svelare
taluni misteri che nel caso di petromonarchie, Turchia e parecchi ‘aid’
statunitensi sono sotto la luce del sole, è utile soffermarsi su particolari
che introducono scenari di medio termine.
Un Egitto
destabilizzato,
in una regione infuocata, non fa bene soprattutto alla vita egiziana. Il Sinai,
deserto a parte, è zona d’introiti turistici, linfa vitale per l’economia di
casa. La cura militare sembra favorire un caos ancora più aspro dei mesi scorsi,
per l’acuirsi del livello di scontro interno e l’alibi offerto alle posizioni
estreme del fondamentalismo salafita applicato da Ansar e dai gruppuscoli
alleati dell’internazionale jihadista. La situazione s’ingarbuglia
ulteriormente se s’ipotizza la pratica d’infiltrazione rivolta all’elefantiaco
corpo militare e degli stessi organi di sicurezza. I terroristi potrebbero
imitare la tattica dell’arruolamento di propri miliziani per colpire
dall’interno. Non tanto per abbattere un simbolo come fece Al Istambuli
l’uccisore di Sadat, quanto per creare tensione continua con centinaia di agguati,
come fanno i talebani inseriti nell’esercito afghano. Sospetti sono sorti durante
le indagini sull’attentato al quartier generale della polizia, ma sono rimasti
sotto traccia. Fra le ipotesi anche quella di un’esplosione creata ad arte da
porre sul piatto della bilancia elettorale, per quanto dall’esisto scontato.
Certo le bombe ai gasdotti, i razzi su Eilat, le sparatorie sugli uomini in
divisa sono frutto di elaborazioni autoctone dell’islamismo armato. Però nel
Sinai “Falcon uno e due” degli anni 2011 e 2012, più la “guerra” lanciata dal
settembre 2013 non sembrano sinora efficaci come Al Sisi s’aspettava.
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