Nuovo mattino, nuovo attacco. Ancora una volta nella superprotetta Kabul, che
in realtà offre il fianco come e più di altri luoghi afghani. La bomba esplode
nel nono distretto cittadino, colpendo l’ennesimo gruppo di auto in movimento
nella capitale. Dall’area delle ambasciate (dov’è anche quella italiana), in
particolare dalla britannica escono alcune vetture obiettivo dell’assalto
suicida di un kamikaze su una moto. Accade nella controllatissima Jalalabad Road,
già palcoscenico di recenti attentati, dove sorgono abitazioni per gli stranieri e
molti servizi delle Forze Armate locali. Sei le vittime, una dentro l’auto che secondo
quanto dichiara la struttura britannica non è un diplomatico. Trentasette i
feriti, come spesso accade quasi tutti passanti. Stavolta la rete talebana ha
rivendicato l’attacco che, come altri che si susseguono ormai a ritmo quotidiano
(quello dei giorni scorsi rivolto contro 45 giovani spettatori d’un incontro di
volley nella provincia di Paktika), puntano a creare caos e colpire il disegno
normalizzatore dell’asse Washington-Kabul. Il governo Ghani per sostenerlo è
impegnato sul piano economico e della sicurezza.
Fra i pesi
massimi con cui dialoga e cerca partnership è presente anche la Cina. L’incontro di
fine ottobre col presidente Xi Jinping prepara e amplia la disponibilità
afghana verso lo sfruttamento delle risorse del sottosuolo su cui Pechino
lavora da almeno sei anni. Previsto l’arrivo di miliardi di dollari, del
portafoglio cinese, col presupposto che l’Afghan National Army garantisca una
sicurezza per tutta la filiera del ciclo, dall’estrattivo, al logistico, al commerciale.
Da parte sua Pechino dovrebbe intervenire sul Pakistan affinché quest’ultimo
lasci operare la neo amministrazione afghana senza ostacoli. Ma la partita è
ampia, varia e ricca di attori. Sul versante economico esistono antichi
interessi di aziende britanniche e statunitensi, riguardanti sempre i minerali,
e l’eventuale fornitura d’infrastrutture. Su quello strategico-militare gli
americani fanno da padroni e hanno recentemente ricevuto il benestare anche dal
Parlamento afghano che ha ratificato la firma posta da Ghani all’Accordo
bilaterale sulla sicurezza che consente alle basi aere Usa di consolidarsi e
continuare a controllare militarmente quest’avamposto strategico nel cuore
dell’Asia.
Gli
incomodi sono proprio Pakistan e Taliban. Il primo ufficialmente promette, anche a
vicini pesanti e potenti qual è la Cina, non ingerenza nelle vicende afghane.
Di fatto prosegue a non nascondere le sue velleità di potenza regionale per
influenzarne la politica, finanche quella interna e continua a far lavorare la
sua Isi. Più la galassia talebana, attualmente in distonia con tutti: truppe
Nato, considerate cronici nemici, leadership afghana, teoricamente disponibile
al dialogo coi guerriglieri ma impegnata su più tavoli diplomatici, dunque
considerata inaffidabile. La rete talebana, che negli ultimi anni appariva
divisa fra gruppi d’interessi anche distinti, sembra in questa fase agire omogeneamente
per mettersi di traverso al disegno “normalizzatore” di Ghani e dei propri
alleati interni e internazionali. Così le bombe continuano a brillare, la
popolazione a morire.
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