Sembra che la battaglia di Kobanê travalichi il
valore simbolico della difesa di un’enclave, che per l’autogestione della
Rojava è già moltissimo. Rappresenta la chiusura d’uno spazio non facilmente
difendibile in un’estesissima pianura sulla direttrice viaria verso occidente,
che potrebbe portare le milizie islamiche ad ampliare il controllo lungo l’asse
dei villaggi attorno ad Aleppo, la zona di Raqqah con la fertilissima valle
dell’Eufrate, sino a raggiungere Mosul. Un’area estremamente vasta dove da quest’estate sventola il nero vessillo
dell’Isis. Del resto il motto del Califfato: “consolidamento ed espansione”, al
di là dei desideri, esprime chiaramente il programma del nuovo Stato che ha
stabilito una schiacciante supremazia nello schieramento jihadista,
sopravanzando il gruppo siriano di Al-Nusra e cercando d’inglobarlo. Ben oltre
le strategie di leadership che vedono Abu Bakr Al-Baghdadi salire nel ranking
gerarchico fondamentalista (scatenando dietrologie sui suoi soggiorni detentivi
nello statunitense Camp Bucca, capaci d’istruirlo e rafforzarlo più che
contenerlo) c’è la sostanza offerta da professionisti delle armi e dagli
armamenti stessi, provenienti dalle file del disgregato esercito iracheno e
dalle strutture dell’Intelligence del partito Baa’th.
Più il flusso di forniture che i fondamentalisti
continuano a ricevere, così da fomentare i sospetti che la stessa coalizione,
che a tratti li bombarda dal cielo, nutra la loro presenza con armi di terra.
In questo gioco delle parti, dove si recita a soggetto, la Turchia tenendo fede
alle ultime dichiarazioni del premier Davutoğlu
ha permesso il passaggio sul confine di Habur d’un reparto di 150 guerriglieri
peshmerga giunti dal Kurdistan iracheno a supporto dei combattenti del Pyd. Stesso
passaggio, però, continua a essere proibito ai miliziani del Pkk, su cui il
governo di Ankara continua a porre un ferreo veto. In tal modo la finalità di
aiutare in un’efficace difesa la cittadina di Kobanê resta in bilico, anzi
continua a essere subordinata ai meccanismo della politica nazionale (in tal
caso turca) e internazionale di non sbilanciarsi eccessivamente a favore della
comunità kurda e soprattutto del suo disegno futuribile della Rojava. Una regione
autonoma e autogestita, prova vivente della reale possibilità di attuare quel
processo di autodeterminazione federale tanto teorizzato dal leder Öcalan. Nel
surplace della comunità internazionale, a Kobanȇ, occupata in una vasta zona
orientale da 5000 e forse più miliziani dell’Is, circa duemila guerriglieri
kurdi continuano a combattere. Registrano il decesso di 200 compagni, mentre le
bandiere nere hanno ricoperto fino a 500 loro cadaveri, parecchi finiti sotto le
bombe dei raid della Nato. Mentre prosegue la fuga dei civili.
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