"Lunga
vita alla resistenza di Kobanȇ" è l’auspicio che i sostenitori del sogno
della Rojava lanciano con una mobilitazione nelle piazze il primo novembre
prossimo. Resistenza sì, ma per quanto? e con quale sostegno? Finora s’è mossa
la rete della solidarietà internazionale, sebbene la politica, macro e micro,
non abbiano fatto molto. Oddio, il premier italiano Renzi a fine agosto volò in
Iraq nei panni di Presidente di turno del Consiglio dell’Unione Europea,
promettendo armi (una partita di kalashinkov sequestrati a un faccendiere
russo) ai peshmerga. Iniziativa di cui non s’è saputo più nulla e che puzzava
di manovra autoreferenziale per accreditare sulla scena internazionale la
ministra degli esteri Mogherini nell’incarico dei Alto rappresentate per la
politica estera e di sicurezza comune. Raggiunto lo scopo i“l nostro governo, e
così quello di altri Paesi dell’Unione, non si sono proposti ulteriori
strategie se non quella d’assecondare la scelta di sorvoli e attacchi aerei
Nato alle postazioni dell’Isis in Iraq e poi sull’assediata Kobanȇ. Alcuni
bombardamenti statunitensi, soprattutto nei primi giorni di ottobre, hanno
alleggerito le condizioni degli assediati d’una città svuotata solo
parzialmente, perché i civili non sanno dove fuggire.
Sotto quell’impatto emotivo l’area scandinava,
quella tedesca e la metropoli londinese hanno registrato un sensibile supporto
con manifestazioni pubbliche. Anche in India, Russia, Stati Uniti e addirittura
in Afghanistan attivisti democratici hanno sfilato per il futuro di Kobanȇ e della
Rojava. Il territorio di confine turco, nelle province del sud-est s’è
infiammato con una protesta amplissima crudelmente repressa dal governo Davutoğlu,
su cui aleggia la supervisione di Erdoğan. Un bilancio gravissimo che conta
trentatre morti per azioni coercitive dell’esercito turco che a Mardin e Nusaybin
ha sparato sulla folla, seguìto dalla polizia nelle strade di Bingöl e
Diyarbakır, mentre a Mardin, Siirt, Adana, Gaziantep gruppi paramilitari e
fazioni dell’islamismo estremista operavano attacchi assassini sulla comunità
kurda solidale coi fratelli della Rojava. Un aggiuntivo bagno di sangue che
passa sotto gli occhi della comunità internazionale pronta a trincerarsi dietro
le dichiarazioni dei rappresentanti Onu. Fra esse spicca l’accorato appello di
Staffan De Mistura che richiama alla memoria Sebrenica e quanto lì accadde, per
lanciare un’autoaccusa agli apparati Onu che nulla fecero per evitare quei
massacri e che potrebbero riproporre la medesima passività.
Incubi ripetibili se l’opportunismo s’incarna in
una cinica real-politik, visto che centinaia di migliaia di civili sono di per
sé un bersaglio inerme attualmente impossibilitato a trovare riparo. Tale
sembra il panorama che lascia il popolo della Rojava e i suoi reparti di difesa
armati (Ypg-Ypj) alla mercé degli eventi e sotto il mirino jihadista. Le
immagini che mostrano le pattuglie dell’esercito turco poste a vigilanza dei
confini di Stato instaurare amichevoli conciliabili con reparti dell’Is sui cui
pick-up sventola il vessillo nero hanno fatto il giro dei media. Come le
forniture di armi che via treno giungono nei pressi di villaggi controllati dai
fondamentalisti. Una scelta aperta operata dalla leadership di Ankara che
coglie l’occasione dell’aggressione armata al territorio dell’autogoverno del
Kurdistan occidentale per indebolire una popolazione considerata, nonostante tutti
i pronunciamenti, nemica. Gli organismi di sostegno della comunità kurda
ribadiscono la necessità che la difesa di quest’esperienza e quest’area sia sentita
come una protezione per la cultura e la società multietnica, pluralista e
democratica. Un baluardo dal quale guardare al futuro e per il quale chiamano a
una diffusa mobilitazione.
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