L’opposizione
tunisina
laica riunita nel gruppo conservatore Nidaa Tunis emerge dalle consultazioni di
domenica come primo partito col 38% dei voti che gli consente di ottenere 83
dei 217 seggi parlamentari. L’islamismo moderato di Ennadha non supera il 31%
per 68 seggi e si vede sbalzato dalla leadership elettorale seguita alla caduta
di Ben Ali. Più staccate l’Unione Patriottica, 7% con 17 seggi, e il Fronte
Popolare, 5% e 12 seggi. Questi conteggi devono ricevere la conferma il
prossimo 30 ottobre, ma sembra che quanto riscontrato verrà ufficializzato perché
le contestazioni sono poche. Tant’è che i responsabili dei due gruppi, gli anziani
Essebsi, per la componente secolare, Ghannouchi, per quella islamica,
annuiscano di fronte alla nuova situazione. La mestizia di Ennadha, che subisce
una retromarcia parzialmente annunciata anche nel rapporto con l’elettorato più
povero del Paese, ha visto una dichiarazione del portavoce Zitoun pronto a
congratularsi coi vincitori, sebbene venga fatto notare come il futuro non
potrà prescindere da un governo d’unità nazionale. Strada non facile che
potrebbe risultare praticabile sia perché alternative concrete non se ne
vedono, sia per il superamento avvenuto nel gennaio scorso d’un vero nodo dell’essenza
dello Stato rappresentato dal varo della nuova Costituzione. In essa sono state
salvaguardati: parità di genere, diritti civili, indipendenza della
magistratura, religione, separazione fra Stato e varie religioni. Un
compromesso che altre nazioni toccate dalle ‘Primavere arabe’ non sono riuscite
a raggiungere.
Abdel
Fattah, attivista laico di piazza Tahrir e blogger dei giorni della rivolta anti Mubarak,
torna in carcere durante l’esecuzione del processo nel quale è imputato assieme
ad altri 23 manifestanti. Rischia fino a 15 anni di galera per sit-in non
autorizzato, in violazione alla legge del novembre scorso che nega ogni genere
di assembramenti pubblici con finalità socio-politiche. E’ la ferrea norma
voluta dal generale Al Sisi nei mesi che seguirono la strage della moschea di
Rabaa Al-Adawiyeh (fra le 1200 e le 2000 vittime prevalentemente della
Fratellanza Musulmana) e la sua elezione a presidente della Repubblica nello
scorso febbraio. Uno stato di coercizione che inchioda l’intero Paese ai voleri
della lobby delle Forze Armate sostenuta da una parte della popolazione. Con
Fattah finiscono dietro le sbarre anche Abdel Rahman e Wael Metwally pensatori
laici, progressisti ma estranei alla cerchia della Confraternita, divenuta il
primo bersaglio della restaurazione militare. Parenti e sostenitori degli
attivisti hanno intrapreso uno sciopero della fame per evidenziare la faziosità
con cui prima del processo si toglie la libertà ai cittadini. In realtà, già
dall’estate 2013 migliaia di egiziani stanno riempendo le prigioni nazionali, i
dati dei mesi scorsi raccolti da Amnesty International riferivano di 12.000
arresti accertati e di altre migliaia di scomparsi nelle galere d’Egitto. Al
Sisi che da mesi visita il mondo, incontrando capi di Stato e diplomazie varie,
non ha mai rilasciato dichiarazioni su questa sospensione dello stato di diritto
che concerne la libertà d’espressione e d’informazione, come ben sanno i
giornalisti detenuti. Non ultimo il terzetto di Al Jazeera (Greste, Fahmy, Mohamed) incarcerati da oltre trecento
giorni in base ad accuse fantasiose: fiancheggiamento dell’attività sovversiva
di Badie (il capo spirituale della Brotherhood) che avrebbe come prova l’intervista
rilasciata da quest’ultimo ai tre reporter.
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