Se Kobanê
assediata diventa la piccola Stalingrado kurda, esiste un comune denominatore
che avvicina i nemici del Rojava. Pur schierati su fronti opposti i jihadisti
dell’Isis e l’esercito turco puntano entrambi alla caduta di questo simbolo. La
regione autonoma in terra siriana è la prova che l’utopia di Öcalan
sull’autonomia federale ultranazionale può diventare realtà. Lo Stato Islamico
la vive come ostacolo alla sua espansione e dominio della regione; la Turchia
come un pericoloso esempio che la ben più numerosa comunità kurda presente nei
suoi confini può e vuole imitare. Il presidente Erdoğan, già da premier, ha avviato
coi kurdi la partita doppia dei colloqui e della repressione. Un confronto che
il prigioniero Öcalan e i parlamentari kurdi, che periodicamente lo visitano
nel supercarcere di Imralı, conducono con paziente attenzione. Il leader turco
è parso in più di un’occasione un doppiogiochista, praticando una specie di
‘stop and go’ per irretire le richieste socio-politiche della cospicua
minoranza. Ennesima tattica per dilazionare i tempi. Come tattica appare
l’attuale presenza di carri armati sul confine siriano che lo Stato turco
dovrebbe usare contro i jihadisti. Ma questi carri e i diecimila soldati di
frontiera possono servire ad altro. E’ già accaduto.
Servono a fermare
il doppio flusso nelle frontiere turche dei profughi civili che fuggono dal
terreno di scontro e a bloccare i militanti kurdi che corrono a combattere a
fianco dei fratelli del Rojava. Quest’area, posta in territorio siriano oltre
la linea di confine turca, è divisa in tre cantoni: a ovest Efrin, al centro
Cezire, a est Kobanê. E’ abitata da circa quattro milioni di persone, in gran
parte kurdi, mentre a Cezire, che è l’area più vasta, convivono arabi,
aramaici, yazidi, cristiana, oltre gli islamici. A Efrin sono presenti anche
gli alawiti. Questo melting pot di etnìe, culture, religioni e lingue che si dà
una definizione sul piano politico-amministrativo è l’elemento rivoluzionario
del Rojava, incute terrore al fondamentalismo wahhabita ispiratore del califfo
Al Baghdadi e infastidisce non poco il sultano turco. Al di là dell’attuale
momento critico dovuto all’offensiva jihadista i cantoni avevano già avuto difficoltà
di coordinamento, ma, per i suoi teorizzatori del Partito dell’Unione
Democratica, rappresentavano la migliore soluzione per superare il centralismo
del partito Ba’ath. La loro esperienza è in continuo sviluppo, si fa forte del
concetto di autonomia democratica che viene proposto all’intera nazione siriana
tramite un federalismo che vede una “patria democratica composta da cittadini
multilingue, multinazionali, multireligiosi.
Un luogo dove
kurdi, arabi, assiri, caldei, turkmeni, armeni, ceceni condividono una patria
comune”. Un progetto di società che economicamente sostiene uno sviluppo
egualitario basato sul principio “a ognuno secondo il suo lavoro”, incentivando
scienza e tecnologia, ma preservando gli interessi di lavoratori e consumatori
e tutela dell’ambiente. Sul piano dei diritti c’è massima garanzia per donne e
bambini. Le prime possono e devono esprimersi nelle sfere politiche,
socio-economiche e culturali. Ai piccoli dev’essere assicurato un futuro
dignitoso sul piano della crescita, dell’istruzione, della collocazione
sociale. Il progetto deve fare i conti con le attuali emergenze di guerra e
d’assedio e con chi lo contrasta su altri versanti. Fra costoro Asad, centralizzatore
e oppressore delle diversità che non accettano la convivenza tutt’altro che
egualitaria su cui è basato il suo regime. Ma anche le realtà kurde più forti a
cominciare dal Kurdistan iracheno nella versione filo occidentale di Masoud
Barzani. Eppure in queste ultime settimane, la durezza del conflitto con
l’Isis, la drammaticità della situazione in atto con massacri e centinaia di
migliaia di profughi in movimento, ha visto i resistenti del Rojava e i
peshmerga collaborare e combattere insieme. Certamente i primi coi soli
kalashnikov, sebbene cominciano a giungere armi pesanti iraniane.
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